Ripensare la mobilità urbana per reimmaginare le nostre società
di Sofia Pasotto e Demetrio Marra
Lo scorso martedì 8 luglio scorso, attorno alle ore 13:30, in via Aga Khan (ex via Porto Vecchio) a Porto Cervo, Gaia Costa viene investita sulle strisce pedonali da Vivian Spohr alla guida di un SUV.
Descritto così, senza dettagli, l’episodio suscita già rabbia. I media tradizionali hanno provato a raccontarla superficialmente, perdendosi nella romanticizzazione della vittima e in un racconto perverso e apolitico, ma la particolarità di questa rabbia è il suo essere una reazione spontaneamente politica alla violenza: il suo oggetto non è tanto la morte improvvisa di una persona, né le presunte colpe individuali, ma le responsabilità politiche che si celano dietro a questa morte e a queste colpe. Il sentimento di rabbia, insomma, è un inizio di agency – o se preferiamo, presa di coscienza – politica. Darle spazio o reprimerla, sta a noi, loro hanno già deciso.
L’omicidio di Gaia Costa è solo l’ultimo in ordine temporale di un 2025 ancora non concluso: secondo l’Associazione Sostenitori Amici della Polizia Stradale (ASAPS), al 21 luglio sono 199 i decessi di pedoni e 119 quelli di persone che vanno in bicicletta (da qui in poi riferite come “ciclist*”). Se attingiamo a dati scientificamente più accurati, quelli raccolti dall’ACI insieme a ISTAT e pubblicati sul portale LIS (Localizzazione degli incidenti stradali), la situazione si fa ancora più drammatica. Nel 2023 (i dati sul 2024 non sono ancora disponibili) sono stati 483 i decessi di pedoni e 212 quelli di ciclist*, su 3.039 decessi totali dovuti a incidenti stradali. Gli incidenti sono stati 166.525, di cui 2.832 mortali. Volete sapere i feriti? 224.634, lo 0,38 per cento della popolazione dimorante in Italia.
Eppure muoversi in strada non è considerato pericoloso. A questa percezione ottimista della mobilità contribuisce una narrazione pubblica e mediatica precisa: gli incidenti sono esattamente ciò che la parola suggerisce, cioè “avvenimenti inattesi”. Per consolidare tale credenza, a livello mediatico raramente troveremo citati i dati appena riportati e sulle pagine dei giornali, così come durante le trasmissioni televisive, viene ospitata solo una piccola percentuale degli incidenti che accadono: quelli che si prestano alla sensazionalizzazione, dove la tragicità e le colpe sono evidenti. E molte volte, neanche gli incidenti più “sensazionali” destano le giuste reazioni.
Gli incidenti stradali sono tutt’altro che avvenimenti inattesi. Sono invece previsti e volutamente rimossi, “danni collaterali” considerati inevitabili se si vuole continuare a muoverci così. Il punto, infatti, è il mantenimento di questo stato di cose: di una mobilità fondata sul mezzo privato e sui carburanti di origine fossile, cioè gli stessi elementi che, se drasticamente ridotti, garantirebbero una maggiore sicurezza. Stradale, certo, ma anche in termini di salute: il particolato (PM2,5 e PM10) rilasciato dallo scarico delle automobili e dovuto all’usura di freni, pneumatici e frizione, nonché al risollevamento delle polveri del manto stradale, contribuisce all’inquinamento atmosferico che causa danni all’apparato respiratorio e cardiovascolare, al sistema nervoso e immunitario, ed è corresponsabile di diverse malattie croniche e di migliaia di decessi ogni anno in Italia.
La dimostrazione della volontà di non agire davvero politicamente per garantire la sicurezza stradale è l’ultimo dei provvedimenti di questo governo in materia: il nuovo Codice della Strada promosso dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini.
Moltissim* hanno sottolineato come il Codice della Strada (ribattezzato “della Strage” da alcuni associazioni di cittadini e cittadine impegnate nella sicurezza stradale) rinunci a ridurre gli incidenti concentrandosi sulle pene e ignorando le cause, ostacoli l’introduzione di limiti di velocità e l'installazione di autovelox, nonché tenti di limitare l’autonomia dei comuni con l’obiettivo di fermare l’introduzione di nuove ZTL e zone 30, e ovviamente ostacoli l’uso della bicicletta e la costruzione di nuove piste ciclabili. Il tutto con l’obiettivo chiaro di sabotare ogni progetto alternativo di mobilità, colpendo il profondo legame tra sicurezza stradale ed ecologia.
Ci abbiamo girato intorno finora, ma la questione è molto semplice: in un incidente, gli elementi fisici da prendere in considerazione sono la massa dei veicoli o dei soggetti coinvolti, la loro velocità, la tipologia dell’impatto e l’uso di dispositivi di sicurezza interni o esterni. Se consideriamo la legge della conservazione della quantità di moto (= massa x velocità), e la legge che può determinare la forza di impatto (= massa x accelerazione, anche negativa), è ovvio che il soggetto che subirà più danni sarà quello con meno massa, che viaggerà a una minore velocità, che avrà una maggiore decelerazione. Per migliorare la sicurezza stradale, è dunque importante lavorare affinché un impatto in condizioni di enorme squilibrio non accada.
Gaia Costa era una ragazza di 24 anni che stava andando a lavoro. Vivian Spohr è una manager di 51 anni, anche moglie del CEO di Lufthansa, che era alla guida del suo SUV BMW X5 (dal valore compreso tra 90mila e 130mila euro). Non c’è alcuna intenzione di sovradeterminare un incidente come se si trattasse di un episodio di lotta di classe, ma aggiungendo i dettagli (e considerando l’episodio come l’ultimo di una serie) diventa solo più evidente come i rapporti di forza che si instaurano tra persone alla guida di autoveicoli, persone in bicicletta e persone a piedi ricalchino i rapporti di forza tra classi nel sistema tardo capitalista.
Essendo la strada una simulazione in scala della società, non può che reiterarne i privilegi. Perciò la mobilità è già politica. Le scelte di questo governo potrebbero celare, dietro un preciso populismo, un progetto di tutela dei profitti dell’industria dell’automotive – e non dell’industria di per sé, smantellata invece per programma negli ultimi decenni, basti pensare alla lotta del Collettivo di Fabbrica ex GKN), nonché il tentativo di rimettere al centro dei finanziamenti pubblici infrastrutture di mobilità su ruote (come il Ponte sullo Stretto).
Ma la mobilità è già politica perché i rapporti di produzione nel sistema attuale non possono che generare le condizioni affinché si instaurino determinati rapporti di forza. Perciò ogni governo (anche sovranazionale) finisce per interpretare un ruolo di mediazione sbilanciata tra classe capitalista e classe lavoratrice, cioè tra privato e pubblico. Come interpreti questo ruolo all’interno del sistema è ininfluente: una posizione progressista sulla mobilità che non metta in discussione il capitalismo (dunque una posizione capitalista green come quella dell’UE, che si illude sia sufficiente agire sulla decarbonizzazione, evitando di intervenire sulla produzione di automobili), e una posizione antiecologista generano lo stesso risultato: insicurezza stradale, climatica, sociale. Perché non dimentichiamocelo: trasformare la nostra mobilità dentro un sistema ingiusto, quindi ignorando ancora come il nostro benessere di paese del Nord Globale continui a essere garantito a scapito del Sud Globale (attraverso sfruttamento esternalizzato di risorse e manodopera), significa consolidare il privilegio – in Il Capitale nell’Antropocene di Saito Kohei, è un argomento molto approfondito.
La lotta per una mobilità giusta è una lotta per l’abitare.
Per rendere la mobilità sicura, è fondamentale ridurre drasticamente l’uso di veicoli a motore privati e limitarne la velocità di percorrenza, soprattutto in città. Allo stesso tempo, bisogna incentivare l’uso dei mezzi pubblici, sia di quelli su binari (treno, metro, tram) sia quelli su ruote; nonché, ovviamente, incentivare la mobilità dolce, aumentando gli spazi pedonali e l’estensione delle piste ciclabili, affinché siano sicure, utili e capillari.
Guarda caso, è la stessa ricetta che porterebbe a una sensibile diminuzione dell’inquinamento atmosferico derivante dal trasporto privato. Allacciate le cinture, si parte con le percentuali): nell’Unione europea, il settore dei trasporti è responsabile del 20 per cento circa delle emissioni. Di questo 20 per cento, il 71 per cento è causato dal trasporto su strada, e di questo 71 per cento, il 60 per cento è causato dalle automobili private. Sul sito del Parlamento europeo, nella sezione che tratta di inquinamento dei trasporti, troviamo scritto che «sono due i modi con cui si possono ridurre le emissioni di CO₂ delle auto: rendendo i veicoli più efficienti oppure cambiando il tipo di alimentazione delle autovetture». La possibilità che le auto siano semplicemente troppe non viene neanche presa in considerazione. Le emissioni di CO₂ derivanti dalle automobili si riducono limitando la produzione e l’utilizzo automobili. Si riducono garantendo alternative accessibili, economiche (gratuite!), sicure e funzionanti. Cosicché chi davvero ha bisogno di utilizzare l’auto, può farlo in tranquillità, sicurezza e senza dover perdersi nel traffico infernale che caratterizza ormai ogni città europea sopra i 40 mila abitanti.
Dire sicurezza e dire ecologia è la stessa cosa – anche perché se continuiamo così non ci saranno infrastrutture stradali e città che tengano alla violenza della crisi climatica e dei suoi fenomeni estremi – ma in un senso più profondo vuol dire anche anticapitalismo. Pure lavorando per una mobilità radicalmente diversa, in questo sistema economico-politico non funzionerebbe. Il realismo capitalista funziona così: solo ciò che asseconda le regole della crescita infinita e dell’aumento dei consumi può funzionare. Per una mobilità sicura ed ecologica bisogna togliere dall’equazione crescita e consumo e rinunciare al profitto a tutti i costi. Questo vuol dire trasformare la nostra vita in meglio.
La violenza stradale è un problema sistemico: per risolverlo, bisogna agire a livello sovrastrutturale o culturale, e a livello strutturale o materiale. Ogni volta che si dicono le cose in questi termini, la reazione è di paralisi: come si può cambiare tutto questo? Si può, perché c’è uno spettro dell’azione politica, da ciò che si può fare individualmente, come collettività e come istituzioni. La rivoluzione è possibile solo se c’è sinergia tra i livelli.
Veniamo a noi
CIAO! Scusateci, non ci siamo neppure presentati... non siamo grandi fan della rivoluzione dei consumi, ma è possibile essere radicali anche nella vita di ogni giorno, a partire dalla quotidianità. E quindi vogliamo fare una riflessione insieme a voi che state leggendo.
Se potete, camminate. Se potete, prendete una bici. Noi (Sofia e Demetrio) pedaliamo tutti i giorni per andare a lavoro, tempo di percorrenza un’ora circa a testa in due città conosciute per la loro pericolosità: Roma e Milano. Siamo privilegiati, visto che possiamo permettercelo? Proprio perché non siamo privilegiati possiamo permetterci solo la bici: costa poco (ancor meno se usata, in quel caso le ciclofficine popolari fanno al caso vostro), ha bisogno di relativamente poca manutenzione e di nessun documento di guida. Ci permette libertà di movimento, ci mantiene in salute e ci dà la possibilità di vedere la città in modo diverso, davvero.
Certo: l’auto privata è un mezzo utile in diversi casi, per esempio se si ha una famiglia, anche perché non tutte le città sono servite adeguatamente dai mezzi. Accettare questo (in un’ottica di riduzione complessiva del suo uso) è però diverso dal cadere nell’errore che la macchina garantisca sempre libertà e comodità, una narrativa che ha un uso politico preciso. L’esperienza infatti ci dice il contrario (la rabbia di chi guida dovrebbe essere sufficiente come prova): l’automobile crea dipendenza. Laddove i mezzi non ci sono, non sono affidabili o sufficienti, bisogna agire attraverso le realtà locali.
Sempre voi che state leggendo (siamo dei tafani, ce ne rendiamo conto): la democrazia funziona solo se torna a essere partecipativa, da rappresentativa. Vuol dire tornare ad agire come collettività, a partire dalle riunioni di condominio, fino ad arrivare alla piazza. Se la mobilità è un tema di tutt*, le decisioni sulla mobilità devono essere collettive: per questo, esistono associazioni (come Salvaciclisti, per dire), realtà e spazi sociali in tutte le città che possono aiutarvi a fare parte del tessuto collettivo della realtà che vivete. Trovate quello che vi è più affine e “risignificate” la vostra agency (o rabbia).
Infine: il conflitto politico è alla base della democrazia. Significa far cadere la distanza che c’è (e sappiamo che la percepite!) tra cittadin* e istituzioni. Vuol dire farsi sentire, vuol dire pretendere una radicalizzazione delle istituzioni nella direzione opposta rispetto alla tendenza generale (che va sempre più a destra). Pretendere che il pubblico torni ad arginare il privato, punti alla redistribuzione della ricchezza, non all’accentramento.
Milano è considerata una delle città più sostenibili d’Italia, eppure è la più esclusiva ed escludente, nonché la seconda provincia per veicoli coinvolti in incidenti (spesso mortali per chi sceglie la mobilità lenta). Insomma, se veramente vogliamo iniziare a respirare e vivere al di là delle logiche capitaliste che – diciamocelo – rendono la nostra vita o una miseria, o un inferno, allora è necessario iniziare a fare tutto ciò che possiamo, in comunità e collettività. Riappropriamoci del nostro bellissimo, dirompente e rivoluzionario potere di cambiamento, e crediamoci. Altrimenti, il fallimento è già scritto.
Sofia Pasotto è attivista per il clima, parla di crisi climatica sui social come "telospiegasofia". Tra gli altri progetti ha fatto un TEDx che si intitola “Essere marea per cambiare il mondo” e ha un programma su RaiPlay, “Pianeta Sofia”.
Demetrio Marra è militante antifascista e insegnante in un istituto tecnico-artistico di Milano. È cofondatore di lay0ut magazine e scrive per diverse piattaforme di informazione, tra cui Treccani e Milano in Movimento.
Ci rileggiamo a settembre
La seconda stagione di A Fuoco si conclude qui, con la quarantasettesima puntata di un’annata in cui abbiamo fatto del nostro meglio per raccontare gli effetti della crisi climatica su un mondo profondamente diseguale e inquinato dalla disinformazione.
Ci prendiamo solo un attimo di pausa per rifiatare e a settembre torneremo da voi con nuove idee, nuovi autori e autrici e tante sorprese che stiamo già preparando. Nel frattempo, se non lo avete già fatto, vi consigliamo di recuperare il nostro podcast, che trovate su Spotify e un po’ su tutte le piattaforme dove si ascoltano cose.
Promettiamo di tornare con lo spirito di sempre, ragion per cui speriamo di poter contare ancora una volta su tutte e tutti voi. La nostra comunità, l’elemento che rende davvero possibile l’esistenza di questo progetto. Grazie di cuore per il seguito e l’affetto che ci avete dimostrato, non perdiamoci di vista.
A presto!
Io ormai da diversi anni a questa parte evito il centro città come la peste, in auto. Se posso non ci voglio andare. E quando ci devo andare per impegni o lavoro, posteggio lontano, prendo la linea gratuita ( gratuita!) messa a disposizione dal comune per diminuire il traffico del centro e mi ci lascia proprio davanti. All’inizio era snobbata da tutti. Ultimamente vedo che sempre più gente ha capito che non è da sfigati ( e nemmeno da stupidi, perché il rischio era di passare per stupidi agli occhi degli amici ) prendere il bus e soprattutto una linea gratuita che ti copre 1/2 km di tratta dal terminal al centro e ti lascia nei punti più strategici.
Ancora domina la mentalità del prendo l’auto anche per andare a comprare il pane vicino casa e soprattutto del posteggio difronte alla porta del negozio in cui devo andare a far shopping a tutti i costi, anche in doppia fila se necessario.
C’è sicuramente molta strada(!) da fare ma qualcosina piano piano si sta muovendo.
Intanto benedico la linea gratuita che in parte aiuta a detrafficare una parte di città che soffre terribilmente per la congestione di auto che vi transitano!
Grazie per il lavoro che fate, puntate preziosa.
Io sono tornato da poco dal Giappone (Tokyo, Kyoto, Osaka) con un sacco di memorie e appunti visivi proprio sulla progettazione urbana.
Soprattutto a Tokyo ho trovato strade sicure e accessibili per chi cammina, va in bici, su una sedia a ruote o spinge passeggini; macchine più strette delle nostre, meno spazio proprio per le macchine, quasi nessun parcheggio, tantissime bici attrezzate, ciclabili in ambo i sensi nelle strade a senso unico per i mezzi a motore.
E poi vabbe', c'è la metro di Tokyo che è un'esempio di educazione civica sotto ogni punto di vista.
Anche qui in Europa abbiamo tanti esempi di mobilità urbana che funzionano: assorbire queste virtuosità è necessario per cambiare lo stato delle cose. E continuare a parlarne è una delle prime cose che possiamo fare 😊.