Combattere gli sprechi, acquistare capi di seconda mano, scegliere prodotti che provengono da una filiera sostenibile, ridurre allo stretto necessario il numero di spostamenti aerei. Quante volte ci siamo sentiti dire che ognuno e ognuna di noi può contribuire attivamente a salvare il pianeta attraverso le sue scelte di consumo?
L’appello alla responsabilità individuale è infatti uno dei capisaldi di ogni campagna di sensibilizzazione sulla crisi climatica, una call to action che mira a sottolineare l’impatto che ogni singola persona potrebbe avere sul futuro del clima se decidesse di ridurre le emissioni di gas serra legate al proprio stile di vita. Ma è davvero così? La risposta è più complessa di quanto possa sembrare in apparenza.
Secondo uno studio preliminare condotto dal World Resources Institute, l'adozione di 11 tra i comportamenti sostenibili più comunemente raccomandati nei settori dell'energia, dei trasporti e dell'alimentazione, potrebbe ridurre le emissioni di gas serra di un individuo di circa 6,53 tonnellate ogni anno, più che compensando le attuali emissioni di una persona media (circa 6,3 tonnellate all'anno). Tuttavia, lo studio rivela anche un netto divario tra ciò che è teoricamente possibile e ciò che è realizzabile nelle condizioni attuali.
Se l’azione rimane confinata a un ambito strettamente individuale, infatti, – e cioè, se l’individuo modificasse le sue abitudini di consumo ma attorno a lui non avvenisse alcun cambiamento strutturale dei sistemi globali – tale sforzo produrrebbe solo un decimo del suo pieno potenziale, una frazione infinitesimale del cambiamento radicale di cui il pianeta ha urgentemente bisogno. Il 90 per cento dei benefici derivanti dai comportamenti individuali rimane dunque ostaggio di istituzioni, governi nazionali e aziende, che restano il vero freno di ogni possibile azione climatica.
Secondo l’IPCC, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, cambiamenti radicali nel comportamento umano potrebbero ridurre le emissioni globali fino al 70 per cento entro il 2050, azzerando di fatto le emissioni di Cina, Stati Uniti, India, Unione europea e Russia messe insieme. Anche in questo caso, tuttavia, il report spiega che «il cambiamento comportamentale individuale è insufficiente per la mitigazione dei cambiamenti climatici, a meno che non sia integrato in un cambiamento strutturale e culturale».
Insomma, affinché l’appello alla responsabilizzazione personale abbia senso servono decisioni politiche di forte impatto, che tra le altre cose impongano obblighi e limiti ai soggetti più inquinanti del pianeta. Non è un caso che il richiamo alla responsabilità individuale piaccia molto alle aziende di combustibili fossili, responsabili di oltre il 70 per cento delle emissioni globali dal 1988 a oggi, e a quei rami d’industria che nel tempo sono stati accusati di pratiche poco sostenibili.
La prima vera grande campagna per indurre il senso di colpa nel consumatore risale al 1971, quando le emittenti televisive statunitensi iniziarono a trasmettere quello che sarebbe diventato uno degli spot più popolari di sempre. L’idea era semplice quanto efficace: un uomo vestito con abiti tradizionali nativi americani risale il fiume a bordo di una canoa, notando come le acque diventassero via via più sporche. Sceso dall’imbarcazione, l’uomo si trova di fronte a un’autostrada trafficata e a quel punto il passeggero di un’auto in corsa getta ai suoi piedi i rifiuti di una confezione acquistata in un fast food. La voce narrante commenta il gesto dicendo che «alcune persone hanno un rispetto profondo e duraturo per la bellezza naturale che un tempo era questo Paese. E alcune persone no». La telecamera si avvicina al volto del nativo americano, mostrando una singola lacrima che scende, molto lentamente, lungo la sua guancia. La voce narrante conclude così: «Le persone causano l’inquinamento. Le persone possono fermarlo».
Il messaggio pubblicitario, all’apparenza ineccepibile, era stato realizzato dall’organizzazione anti-rifiuti Keep America Beautiful, che solo successivamente si scoprì essere composta da alcune tra le più influenti aziende del settore delle bevande e degli imballaggi, in quel periodo impegnate in una battaglia lobbistica contro le cosiddette bottle bills che volevano imporre loro di abbandonare le confezioni monouso e adottare contenitori riutilizzabili.
E che dire del concetto stesso di carbon footprint? La cosiddetta “impronta carbonica” viene ancora oggi utilizzata come parametro per stabilire l’impatto di ogni singolo individuo in termini di gas serra emessi, ma si tratta di un’astuta trovata pubblicitaria realizzata dall'agenzia di pubbliche relazioni Ogilvy & Mather per conto della British Petroleum, la seconda più grande compagnia petrolifera non statale al mondo. I pubblicitari si limitarono a riprendere il concetto di “impronta ecologica” coniato nel 1992 dall’ecologo canadese William Rees e a rebrendizzarlo, arrivando persino a lanciare nel 2004 un “calcolatore dell'impronta di carbonio”, per consentirci di comprendere quanto le nostre azioni quotidiane fossero alla base del cambiamento climatico. Niente male per un’azienda che solo sei anni più tardi sarebbe stata responsabile dello sversamento nel Golfo del Messico di 780 mila metri cubi di petrolio, in quello che è ancora oggi il più grande disastro petrolifero della storia.
Naturalmente l’appello alla responsabilità individuale non è solo il frutto di un’accurata strategia propagandistica, ed è proprio questo a rendere insidioso il dibattito sul tema. Come argomenta il professor Steven Cohen della Columbia Climate School, l'azione individuale può essere vista come «il fondamento del processo di apprendimento sociale necessario per un'azione collettiva efficace» e quest’ultima può essere utile a ridurre i costi politici dell’attuazione delle misure di mitigazione da parte dei governi. In altre parole: se ognuno di noi fa la sua parte per ridurre le emissioni sarà molto più facile per i governi prendere decisioni che vadano nello stesso senso, dal momento che le nostre democrazie sono fortemente orientate alla ricerca del consenso.
Ma non solo, perché in alcuni casi l’azione individuale può realmente fare la differenza e – seppur nel piccolo – migliorare concretamente le condizioni di vita di individui e comunità. Prendiamo ad esempio il caso dei rider costretti a effettuare le consegne quando fa più caldo e del criticato bonus di pochi centesimi (poi sospeso) erogato da Glovo come incentivo. Ciascuno e ciascuna di noi può decidere di modificare le sue abitudini di consumo, scegliendo ad esempio di non ordinare o di elargire una considerevole mancia ai ciclofattorini. Si tratta di una conseguenza estremamente concreta della crisi climatica, il cui impatto sulla vita dei singoli rider può essere mitigato attraverso scelte individuali. Disincentivare comportamenti virtuosi di questo tipo non solo sarebbe inutile, ma addirittura controproducente. E anzi, le istituzioni dovrebbero incentivare attivamente le pratiche virtuose, sul modello di quanto fatto con la raccolta differenziata.
E questo ci porta all’ultima riflessione necessaria in questo dibattito: modificare così radicalmente il proprio stile di vita può essere difficile, costoso o semplicemente insostenibile per molte persone e non tutti possono permetterselo. Cambiare la propria dieta e acquistare prodotti provenienti da una filiera etica, ad esempio, comporta un esborso economico maggiore e richiede in alcuni casi più tempo da dedicare alla spesa o alla preparazione delle pietanze. Passare a un veicolo elettrico rappresenta un investimento considerevole per famiglie e individui, laddove non adeguatamente sostenuti da agevolazioni pubbliche. Dedicarsi all’attivismo e impegnarsi in prima persona nella sensibilizzazione sul tema della crisi climatica può risultare estremamente difficile per chi è sottoposto a turni massacranti o è incaricato del lavoro di cura. Anche per questo la responsabilità individuale non può diventare un imperativo morale, né un ricatto emotivo.
In un articolo pubblicato a luglio 2024, la professoressa Sarah Irwin e la dottoressa Katy Wright dell’università di Leeds hanno sostenuto la necessità di introdurre maggiori sfumature nelle discussioni sulla responsabilità personale riguardante le azioni contro il cambiamento climatico, argomentando che le disuguaglianze sociali presenti nelle nostre società dovrebbero spingerci ad adottare aspettative diverse in base alle possibilità dei singoli individui. Una posizione condivisa anche dall’IPCC, che nel già citato report aggiunge: «gli individui benestanti contribuiscono in modo sproporzionato a maggiori emissioni e hanno un elevato potenziale di riduzione delle emissioni, pur mantenendo standard di vita dignitosi e un elevato benessere».
Insomma, viviamo in società complesse e piene di storture, che sono piuttosto lontane dal dirsi pronte ad affrontare una minaccia vitale come quella posta dalla crisi climatica. Una minaccia che investe tutti e tutte noi come individui e come comunità, ma che tuttavia non può più essere elusa o procrastinata, perché ci siamo già dentro fino al collo. E allora forse vale la pena provare a riappropriarsi del concetto stesso di responsabilità, uno strumento che può essere usato non per colpevolizzare il vicino di casa, ma per stimolare una partecipazione attiva. Non per fornire alibi ai colossi che hanno provocato la crisi, ma per costruire un orizzonte condiviso da convertire in azione politica. Prendersi le proprie responsabilità, in questo senso, significa anche e soprattutto restare informati, pretendere un cambiamento, fare pressione su governi e istituzioni.
Simone Fontana è un giornalista, responsabile editoriale di Facta e curatore di A Fuoco. Oltre che di disinformazione si occupa di politica, estremismi e comunità online. Scrive di questioni sociali legate alla crisi climatica, i suoi lavori sono stati pubblicati in Italia e all'estero su testate come La Repubblica, L'Espresso, Domani, Wired, Rolling Stone, Green European Journal e The Daily Dot .
Ci sono casi in cui cambiare il proprio stile di vita è più conveniente e semplice di quello che si voglia ammettere. È noto che a livello individuale modificare la propria dieta è una delle scelte migliori per ridurre il peso che esercitiamo sulla capacità del pianeta di sostenerci.
Nel nostro contesto geografico e sociale, molte persone non potranno permettersi un'auto elettrica, ma tutte possono scegliere di mangiare meno prodotti di origine animale, anche solo per uno o due giorni a settimana (lungi da me proporre idee "estremiste" come nutrirsi di una dieta vegana o vegetariana). È sano per il corpo e il pianeta, conveniente per il portafoglio e collettivamente manda chiari segnali a industrie e governi sulle abitudini in evoluzione. Peccato che, come ho notato spesso, dietro un apparente "non posso" si celi uno spudorato "non voglio perché mi piace troppo il formaggio".
Grazie di questo articolo.
Io ho più volte esortato ciascuno a fare la propria parte, non in un'ottica di colpevolizzazione (perché siamo onesti, lo so anche io che il fatto che io mi muova coi mezzi pubblici non cambia le sorti del pianeta), ma di dare l'esempio ad altri, proprio perché se dal basso si adottano certi comportamenti, "l'alto" a un certo punto non può ignorarli più e qualcosa deve cambiare. Se smettiamo di comprare al supermercato merci che sono più imballaggio che cibo, quelle merci sperabilmente scompariranno,per esempio. Se cominciamo a muoverci in massa in biciletta, arriverà qualche candidato sindaco che farà le piste ciclabili, se non altro per prendere voti...
Aiuta anche a non far prendere le persone dallo sconforto, a mio parere.