Nel 2024, mentre ondate di calore e piogge torrenziali colpivano milioni di persone in Afghanistan, Pakistan, Brasile, Uruguay e in molti altri luoghi del pianeta, il patrimonio dei miliardari aumentava a un ritmo tre volte superiore rispetto all'anno precedente.
In dodici mesi la ricchezza dei dieci uomini più ricchi del mondo cresceva di quasi 100 milioni di dollari al giorno, mentre il numero di persone che vivono in povertà è invariato da oltre vent’anni. Negli stessi mesi del 2024 gli eventi meteorologici estremi causavano il numero più alto di sfollamenti registrato dal 2008 e costringevano alla fuga centinaia di migliaia di persone – quasi tutte a basso reddito. Questa forbice sempre più ampia tra chi detiene la ricchezza e chi non ha mezzi di sussistenza e subisce i più feroci impatti climatici racconta una verità scomoda: l’emergenza ecologica è anche – e soprattutto – una questione di disuguaglianze.
Il cambiamento climatico non solo colpisce più duramente chi ha meno mezzi e responsabilità, ma aggrava la povertà, rallentandone la riduzione e aumentando la disoccupazione. Le conseguenze si misurano in perdita di reddito, aumento dei prezzi, carestie, migrazioni forzate. E mentre i Paesi più poveri subiscono il colpo, quelli più ricchi hanno più strumenti per proteggersi. Una ricerca dell'Università di Stanford ha analizzato l'impatto del cambiamento climatico sulle disuguaglianze economiche tra Paesi: in cinquant'anni i Paesi ricchi hanno visto crescere la propria ricchezza di più di quanto sarebbe accaduto senza i cambiamenti climatici. Al contrario, nei Paesi poveri, la ricchezza pro capite è diminuita tra il 17 e il 30 per cento.
Nel 2019 il 50 per cento cento più povero del mondo era responsabile solo del 12 per cento delle emissioni, ma subiva il 75 per cento delle perdite di reddito dovute agli shock climatici. Il 10 per cento più ricco, invece, che controllava il 76 per cento della ricchezza globale, rischiava di perdere appena il 3 per cento del proprio reddito.
È un circolo vizioso che continua a premiare chi devasta e punire chi resiste.
Chi ha maggiori responsabilità in questo circolo? La risposta è chiara. Oxfam calcola che l’1 per cento più ricco della popolazione mondiale emette più CO₂ del 66 per cento più povero, ovvero quanto 5 miliardi e 280 milioni di persone. Queste emissioni derivano da uno stile di vita irrazionalmente lussuoso e possono essere collegate ai 1,3 milioni di morti causati dal caldo nel 2019, che riguardano chi non ha accesso a mezzi di protezione contro il caldo intenso, come l'aria condizionata, e chi lavora in condizioni precarie, ad esempio esposto a temperature estreme.
Per dirla in altro modo: uno solo dei super miliardari inquina circa un milione di volte più di una persona appartenente al 90 per cento più povero e produce in 96 minuti più emissioni di un cittadino di classe media nella sua intera vita.
In 12 mesi i due jet privati del fondatore di Amazon Jeff Bezos hanno emesso tanta CO₂ quanto un dipendente Amazon statunitense in 207 anni. I due jet di Elon Musk quanto una persona media in 834 anni. E i tre yacht della famiglia Walton (padroni di Walmart) la stessa quantità di carbonio di 1.714 dipendenti della loro società.
Ma non si tratta solo di voli privati o yacht: le fortune di questi magnati sono fondate su investimenti in industrie fossili, armamenti, costruzioni e altre attività ad alto impatto emissivo.
Se tutti vivessero come lo 0,1 per cento più ricco, il pianeta avrebbe già superato i +12°C. Le azioni e lo stile di vita di questo gotha hanno dunque un impatto devastante non solo sul clima ma anche sulla salute e sulla vita dei più vulnerabili.
In termini economici, questo 1 per cento più ricco detiene il 45 per cento della ricchezza mondiale mondiale e più ricchezza del 95 per cento più povero.
A ciò vanno aggiunti i profitti accumulati dalle compagnie dell'oil&gas e di altri settori inquinanti. Secondo il Carbon Majors Report, solo 100 aziende sono responsabili di oltre il 70 per cento delle emissioni globali dal 1988 a oggi. E tra il 2021 e il 2023 appena trentasei grandi aziende hanno realizzato extra profitti legati ai fossili per 424 miliardi di dollari, con un +278 per cento rispetto al triennio precedente, mentre nel solo 2024 le grandi compagnie dei combustibili fossili hanno arricchito i propri azionisti per un totale di 403 miliardi di dollari.
Di fronte a questi dati eclatanti, che fare? La prima cosa è mettere al centro di riflessioni, strategie e battaglie la necessità di fermare questo meccanismo perverso. Come? Usando la fiscalità come leva di riequilibrio delle disuguaglianze e del sistema climatico. Ma per riuscirci c'è bisogno di una grande battaglia globale capace di coinvolgere attori diversi – dalle istituzioni, alla società civile, ai media – con l'obiettivo di fare delle tasse uno strumento decisivo di lotta sociale e climatica. Perché senza misure fiscali adeguate, non saremo in grado di soddisfare le enormi esigenze di finanziamento per il clima.
Le proposte attualmente in campo sono diverse: una tassa globale sui grandi patrimoni, tasse sui consumi di lusso; prelievi sulle rendite da investimenti in settori inquinanti; tassazione degli extra-profitti delle imprese fossili. L'introduzione di una tassa del 90 per cento sui profitti straordinari delle 36 imprese di cui sopra potrebbe generare ad esempio 382 miliardi di dollari, oltre 10 volte di più dei fondi pubblici stanziati ogni anno per l'adattamento. E un'imposta aggiuntiva sui profitti di 585 compagnie di petrolio, gas e carbone raccoglierebbe altri 400 miliardi di dollari.
Le imprese però non bastano: c'è bisogno di tassare i grandi patrimoni. Non un prelievo punitivo, ma un riequilibrio strutturale, oggi più giustificato – politicamente ed eticamente – che mai. Non si tratta di elemosina, ma di una vera e propria misura di giustizia distributiva. Questo è un passaggio politico importante rispetto alla carbon tax: tassare le emissioni legate al patrimonio è più equo rispetto alle tasse generali sul carbonio, che tendono a gravare sui redditi più bassi.
I Paesi che stanno discutendo o sperimentando questo tipo di tassazione sono ancora pochi, ma ci sono. In Spagna è stata istituita dal governo Sánchez una tassa patrimoniale chiamata “di solidarietà” con un'aliquota tra l'1,7 e il 3,5 per cento che interessa lo 0,5 per cento delle famiglie più ricche del Paese. Replicando questo modello in tutto il mondo, il Tax Justice Network stima che si potrebbero raccogliere 2,1 trilioni di dollari all'anno, sufficienti a finanziare la lotta al cambiamento climatico e altre esigenze urgenti.
Sul piano internazionale è in corso un'iniziativa delle Nazioni Unite per istituire una Convenzione Quadro sulla Cooperazione Fiscale Internazionale, sostenuta da circa 110 Paesi, principalmente del Sud del mondo. L'anno scorso la commissione incaricata ha approvato i “termini di riferimento”, tuttavia l'iniziativa si è già scontrata con l'opposizione di alcuni tra i Paesi più ricchi, tra cui Stati Uniti, Australia, Canada, Israele.
Anche nell'ambito del G20, durante il vertice 2024 di Rio è stata adottata una dichiarazione contenente l'impegno a garantire che le persone ultra-ricche siano tassate in modo efficace. La proposta, sostenuta da Brasile, Spagna, Francia e Sudafrica e attualmente in stallo, prevede una tassa patrimoniale globale del 2 per cento per i 3 mila individui più ricchi al mondo, con l'obiettivo di raccogliere circa 250 miliardi di dollari all'anno per finanziare lotta contro povertà e cambiamento climatico.
A livello sociale è stata lanciata nei mesi scorsi la campagna globale Tax the super rich - for people and planet, cui aderiscono centinaia di organizzazioni di tutto il mondo e che si propone di fare informazione, sensibilizzazione, denuncia e pressione sul tema a tutti i livelli.
Una buona notizia è che chiedere che i ricchi paghino per la crisi climatica è un'idea meno impopolare di quanto vorrebbero farci credere. Un'indagine di Ipsos, Earth4All e Global commons alliance realizzata nel 2024 in 18 Paesi del G20 rivela che gran parte del campione è d'accordo con la proposta di tassare i ricchi per combattere con più decisione il climate change.
L’unico ostacolo reale è la volontà politica. Ma la pressione popolare può fare la differenza, forte del fatto che continuare a ignorare il nesso tra disuguaglianze e collasso climatico significa rinunciare a risolverlo davvero. È tempo di cambiare domanda: non più se e in che misura sia giusto tassare i super-ricchi, ma quando inizieremo a farlo davvero.
Aggiornamento - Una precedente versione di questo articolo conteneva un calcolo sbagliato del numero di persone che appartengono all’1 per cento più ricco della popolazione mondiale. La fonte originaria del dato è Oxfam e il report completo può essere scaricato qui.
Marica Di Pierri è attivista e giornalista, è portavoce dell'associazione A Sud e ricercatrice presso l'Università di Palermo. Co-fondatrice del Centro Documentazione Conflitti Ambientali, ha condotto su Radio3 “Le Parole dell'Ambientalismo”. Autrice di saggi e testi, collabora con diverse testate giornalistiche.
Qui non si parla tanto di libertà personale che rimane tale, ma di imprese che paghino per un fanno che creano. Questo ragionamento mi fa venire in mente quanto successo intorno agli anni 70 quando si discuteva della tutela delle acque che poi ha portato alla legge merli e a quelle successive. A quel tempo le aziende si opponevano fortemente all'installazione di depuratori. Oggi, benché sia ancora visto come un costo e non come una necessità, nessuno si meraviglia di dover installare un sistema di depurazione delle acque, e in questi anni le normative sono diventate più stringenti. Vado ancora per esempi. Oggi chi viaggia in treno o in aereo non paga necessariamente lo stesso biglietto di chi gli è seduto accanto, e questo dipende da molti fattori non ultimo il paese dove lo acquisti. Inoltre già oggi molte compagnie aeree, per i biglietti di classe più costosa, chiedono un contributo volontario per l'uso di carburanti meno impattanti. Questo per dire che probabilmente lo spazio c'è per una discussione in questo senso, bisogna trovare la volontà politica.
E' l' intero modello di sviluppo che va cambiato. Impossibile da realizzare.
Solo un cataclisma può liberare il Pianeta, da un ignorante e fastidioso intruso.
Tonerà il Regno vegetale: biocentrico