L’8 aprile del 2025 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato quattro ordini esecutivi per incrementare la produzione nazionale di carbone.
Il carbone è tra le fonti di energia (fossile) con la maggiore impronta climalterante tra quelle disponibili. È un fatto, non un’opinione. In Italia, per le stesse ragioni, l’Enel sta progressivamente dismettendo la centrale di Cerano (Brindisi), la più grande in Europa a trattare questo combustibile.
La decisione di Trump dunque non è semplicemente amministrativa, di politica interna o economica, ma è una scelta di visione politica a lungo termine che è possibile riassumere nella frase “Non ci interessa affrontare il tema dell’emergenza climatica”. Anzi, peggio: è come se non esistesse.
Chi si occupa di comunicare le conseguenze dell’antropizzazione scriteriata sul clima ha da sempre due sfide con cui cimentarsi.
La più complicata da affrontare riguarda l’attitudine umana (e dunque, inevitabilmente, di chi governa), a trattare le priorità secondo emergenze, piuttosto che pianificando per tempo strumenti di prevenzione o perlomeno di riduzione del rischio. Gli studi di economia comportamentale ci dicono che il comportamento più istintivo nel momento della presa di decisione è la valutazione a brevissimo termine del rapporto tra costo e beneficio, senza considerare le possibili conseguenze di lungo termine della propria azione (chi fuma, tra cui il sottoscritto, lo sa fin troppo bene).
Qualsiasi argomento politico che cerca di fare sensibilizzazione su un tema le cui conseguenze irreversibili potrebbero non essere immediate dal punto di vista temporale si scontra, dunque, con la sensazione (illusoria) che “per il momento non è una priorità”.
L’ecoansia, non a caso, correla con l’età: chi ha molto tempo da vivere o ha figli* la sente in modo maggiore, perché sa che a un certo punto l’emergenza climatica non diventerà più uno spauracchio da collocare in un momento indefinito nel tempo, ma che le sue conseguenze riguarderanno le proprie vite e quelle delle persone a loro care.
La seconda difficoltà riguarda il funzionamento intrinseco del capitalismo ed è riassumibile dalla celeberrima quanto moralmente ricattatoria frase dell’ex premier Mario Draghi: “preferite la pace o il condizionatore acceso?”. Con questo falso dilemma (dal punto di vista logico), Draghi stava comunicando all’opinione pubblica: se volete consumare la stessa quantità di energia che consumate adesso, bisogna usare i combustibili fossili, che l’Italia (importatrice quasi al 100 per cento di gas e petrolio) è costretta ad acquistare anche da Paesi non democratici o implicati in conflitti. E quindi, se volete il condizionatore acceso, bisogna anche mettere da parte l’emergenza climatica.
Nel frattempo la Cina, una nazione da 1.3 miliardi di abitanti, produce già oggi il 30 per cento di energia da fonti rinnovabili, che arriverà al 55 per cento nel 2035 e all’80 per cento nel 2050. Questa progressione dimostra sia la fallacia logica del dilemma draghiano sia l’attenzione totalmente rivolta all’oggi di chi ha avuto la possibilità di progettare una politica industriale “green” e non lo ha fatto con la convinzione necessaria ad affrontare le incommensurabili sfide che l’emergenza climatica porta con sé.
La scelta di Trump aggiunge un ulteriore carico di complessità a chi fa attivismo per il clima, sottolineando ciò che in realtà già si sapeva: la destra globale ha sposato volontariamente la causa del “pensare solo all’oggi”, concentrandosi sulla conservazione del mantenimento dei meccanismi di produzione e consumo pressoché inalterati, anche se certamente insostenibili.
L’emergenza climatica è così diventata un argomento polarizzante, divisivo (come si dice in gergo), quando in realtà dovrebbe essere qualcosa che, dati scientifici alla mano, richiederebbe la collaborazione tra tutti gli stakeholder, a prescindere da interessi di parte e dal colore politico. E lo storytelling da destra sull’argomento ha aperto una breccia anche altrove: non è difficile infatti sentire ad esempio che il Green New Deal voluto dalla Commissione Europea “era troppo ideologico” (ma che vuol dire?) anche da partiti teoricamente progressisti o liberali.
Morale: le attività di comunicazione, sensibilizzazione e advocacy sull’emergenza climatica erano già molto difficili prima dell’inizio della Trump-age; adesso sono diventate quasi impossibili, anche perché il mondo sta vivendo il momento geopolitico più difficile dalla fine della seconda guerra mondiale, il che favorisce ulteriormente e inevitabilmente lo schiacciamento del dibattito pubblico sull’eterno presente a cui da anni si assiste.
Serve dunque un ripensamento radicale delle strategie e delle azioni di comunicazione sul clima. In caso contrario si assisterà a ciò che in realtà è già molto visibile: l’emergenza climatica è tornata molto indietro nell’elenco delle priorità politiche e della cittadinanza.
A mio avviso è dunque necessario muoversi su due direttrici:
1. Il problema è reale, l’emergenza è in corso: i gesti simbolici sono dunque controproducenti
In questi anni abbiamo assistito a molte azioni dimostrative da parte di organizzazioni e collettivi ambientalisti, spesso basate su azioni mirate che intendevano promuovere senso comune sull’emergenza climatica. Il bilancio di queste azioni può essere considerato insufficiente, dato che la politica mondiale viaggia piuttosto serenamente nella direzione opposta. I gesti simbolici hanno il vantaggio di essere di facile attivazione, ma non sempre di altrettanto facile comprensione, come ad esempio è capitato nel caso della celeberrima zuppa di pomodoro lanciata sul quadro “Girasoli” di Van Gogh, che richiede una quota di consapevolezza sull’argomento (e di volontà di cogliere il rapporto tra azione e messaggio politico) troppo alta per poter essere efficace sul grande pubblico.
Oggi bisogna intervenire, anche fisicamente, in ogni luogo, contesto, cantiere, infrastruttura che porta con sé un aumento certo dell’impronta negativa sul clima. Serve più tempo, più fatica, i risultati saranno meno mediatici nel breve termine (ma molto di più nel lungo, se la mobilitazione riuscirà). Se l’emergenza climatica è adesso (e lo è), bisogna attivarsi da subito e concretamente. I gesti simbolici sono già fuori tempo massimo.
2. Serve un approccio intersezionale: l’emergenza climatica riguarda tutt*
Per questa seconda direttrice vorrei utilizzare un aneddoto familiare in modo da rendere più chiaro il mio approccio. Qualche settimana fa, a pranzo, mia madre lamentava un forte aumento del prezzo del caffè e del cacao al supermercato. Le ho chiesto se avesse un’idea delle motivazioni e a quel punto le ho raccontato della crisi climatica, dell’effetto sulla vita degli agricoltori e sul conseguente costo delle materie prime. Ho inoltre aggiunto che mentre parlavamo di questi argomenti a tavola, Trump stava riaprendo le centrali a carbone negli Stati Uniti. Proprio mentre stavo scrivendo questo numero di “A Fuoco”, ho sentito mamma, di ritorno dal supermercato, affermare “pure le banane sono aumentate! Maledetto Trump”. L’operazione di advocacy familiare è dunque (almeno in parte) riuscita.
Parlare di emergenza climatica in soli termini di politiche ambientali non basta più, perché la dittatura del presente continuerà a vincere sull’elaborazione dei rischi delle nostre scelte sul futuro del pianeta e dell’umanità. Bisogna dunque spostarsi sul piano temporale del presente non solo a livello di attivismo ma anche di comunicazione, raccontando le conseguenze dirette sulla non-gestione dell’emergenza climatica e rendendo visibili i collegamenti tra deregulation capitalistica, crisi ambientale e le conseguenze di queste due variabili sulla propria vita quotidiana (a partire dal portafoglio, il tema trasversale per eccellenza).
Lo stesso meccanismo, per paradosso, può anche far esplodere una contraddizione nel campo politico della destra su un tema su cui da anni domina a livello di parole-chiave e costruzione dell’immaginario: le politiche di gestione dell’immigrazione. Fino a oggi ha retto la distinzione tra “migrazione per guerre” e “migrazione per motivi economici”, per giustificare politiche xenofobe (una distinzione priva di senso, soprattutto nell’Europa di Schengen, ma oramai sdoganata quasi universalmente). Ma quando sarà necessario muoversi per motivi di sopravvivenza (mancanza di acqua potabile e di cibo, caldo eccessivo), e quando questo accadrà anche a chi vive in Italia, sarà possibile ancora dividere i migranti tra loro in “categorie” per favorirne la disumanizzazione e dunque una più facile discriminazione?
Già oggi si può fare “ambientalismo intersezionale” su tantissimi temi, oltre a quelli già citati: scelte di consumo, gestione della logistica, commercio (in particolare online), politiche agricole (incluso l’allevamento), produzione di beni e servizi, politiche industriali ed energetiche, trasporti, intelligenza artificiale. E questo è solo un elenco parziale.
Dino Amenduni è socio e consulente politico dell’agenzia di comunicazione Proforma. È docente di comunicazione politica ed elettorale. Fa parte dello staff del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Collabora con Valigia Blu, con cui realizza il podcast “Viaggio nella Politica Italiana”.
Memini climatici

Sempre bello leggere Dino, livelli altissimi!
Molto interessante.