I cambiamenti climatici, dovuti in gran parte alle emissioni della combustione di combustibili fossili come gas e petrolio, stanno causando lo spostamento di milioni di persone: l’innalzamento drastico delle temperature, l’innalzamento dei mari che sta sommergendo gli Stati insulari e la siccità che ha esacerbato conflitti in varie aree del mondo.
Rispetto a 30 anni fa, il numero di giorni in cui le temperature toccano i 50 °C è già raddoppiato: questo livello di calore è mortale per gli esseri umani, ma anche estremamente problematico per edifici, strade e centrali elettriche. Rende un territorio completamente invivibile. Per questo motivo un gran numero di persone sarà costretto a migrare, non solo verso zone più vicine – come succede ora – ma anche attraverso i continenti.
L’estate 2023 è passata alla storia come la più calda di sempre, basti pensare alle temperature record registrate in Europa, in particolare in Spagna e in Italia, ma anche il caldo anomalo che ha colpito il Nord Africa, una delle zone più sensibili al riscaldamento globale. Proprio in questi giorni in Malawi si stanno registrando temperature record di 44 °C, 20 gradi sopra la media stagionale. La siccità sta gravemente colpendo varie aree dell’Africa, come la Somalia – dove solo lo scorso anno la carenza di piogge ha causato la morte di 43 mila persone, la metà delle quali bambini – o l’Africa Centrale e Occidentale dove la combinazione di conflitti e cambiamenti climatici sta mettendo a rischio la sicurezza alimentare di 48 milioni di persone.
Non solo ondate di calore e siccità, ma anche alluvioni dalla potenza distruttiva. Nell’autunno del 2022, le alluvioni in Pakistan hanno colpito il 15 per cento della popolazione e causato lo sfollamento di quasi 8 milioni di persone, oltre ad aver provocato quasi duemila morti. Nello stesso periodo, le alluvioni hanno colpito anche la Nigeria, dove più di 4,4 milioni di persone (di cui la metà bambini) hanno perso tutto. L’ultima alluvione in ordine cronologico è quella che ha colpito il Mediterraneo Orientale e che, arrivata in Libia, ha causato il crollo delle dighe e il disastro nella città di Derna, dove si stima siano morte più di 11mila persone.
Secondo l'UNHCR, ogni anno i disastri naturali costringono, in media, più di 20 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Gli scienziati prevedono che le migrazioni aumenteranno con il riscaldamento del pianeta. Secondo il rapporto dell'IPCC delle Nazioni Unite pubblicato nel 2022, nei prossimi 30 anni 143 milioni di persone saranno probabilmente sradicate dall'innalzamento dei mari, dalla siccità, dalle temperature roventi e da altre catastrofi climatiche.
I dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) spaventano ancora di più: secondo le stime si prevedono più di un miliardo di migranti ambientali nei prossimi 30 anni. Altre proiezioni dell’Institute for Economics and Peace parlano di 1,2 miliardi entro il 2050. Dopo il 2050 si prevede un'impennata con l'ulteriore riscaldamento del pianeta e l'aumento della popolazione globale fino al picco previsto per la metà dei prossimi anni Sessanta.
La maggior parte dei migranti climatici si sposta all'interno dei confini del proprio Paese, di solito dalle zone rurali delle città, dopo aver perso la casa o i mezzi di sostentamento a causa della siccità, dell'innalzamento dei mari o di altre calamità meteorologiche. Sono quelli che vengono definiti Internally Displaced People. Secondo l’Internal Displaced Monitoring Center, nel 2022 il numero di sfollati interni a causa di disastri ambientali è stato di 8,7 milioni. Poiché anche le città stanno affrontando i loro problemi legati al clima, tra cui l'aumento delle temperature e la scarsità d'acqua, le persone sono sempre più costrette a fuggire attraverso i confini internazionali per cercare rifugio.
Tuttavia, ad oggi, la comunità internazionale non riconosce ancora giuridicamente le migrazioni climatiche e ambientali, e questo comporta una mancata formalizzazione anche degli strumenti di tutela di queste persone. Ai migranti climatici, infatti, non viene riconosciuto lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, che fornisce protezione legale solo alle persone che fuggono dalle persecuzioni a causa della loro razza, religione, nazionalità, opinione politica o di un particolare gruppo sociale. Nemmeno il Protocollo aggiuntivo del 1967 prevede questa fattispecie.
Individuare i migranti climatici non è facile, soprattutto in regioni piene di povertà, violenza e conflitti. Mentre il peggioramento delle condizioni climatiche, ambientali e meteorologiche esacerba la povertà, la criminalità e l'instabilità politica e alimenta le tensioni per la diminuzione delle risorse dall'Africa all'America Latina, spesso il cambiamento climatico viene trascurato come fattore che contribuisce a far fuggire le persone dalle loro terre d'origine. Secondo l'UNHCR, il 90 per cento dei rifugiati sotto il suo mandato provengono da Paesi in prima linea nell'emergenza climatica.
Sebbene nessuna nazione offra asilo ai migranti climatici – l’Italia prevede il permesso di soggiorno temporaneo per calamità, ma vale soltanto per cittadini già presenti in Italia e non per i richiedenti asilo che non possono rientrare nel loro Paese a causa di disastri naturali – nell'ottobre 2020 l'UNHCR ha pubblicato delle linee guida che aprono le porte alla possibilità di offrire protezione alle persone sfollate a causa degli effetti dei disastri naturali e ambientali. Il documento afferma che i cambiamenti climatici dovrebbero essere presi in considerazione, in determinati scenari che si intersecano con la violenza, senza però oltrepassare la definizione della Convenzione sui rifugiati del 1951.
La stessa agenzia delle Nazioni Unite ha poi sottolineato che la protezione temporanea può essere insufficiente se un Paese non è in grado di porre rimedio alla situazione causata da disastri naturali, come ad esempio l'innalzamento dei mari, e che quindi alcune categorie di rifugiati ambientali dovrebbero essere eleggibili per il soggiorno di lungo periodo.
I dibattiti politici sulle migrazioni sono, ormai, da troppo tempo incentrati solo sulla gestione e sulla chiusura delle frontiere. Tutto questo impedisce ai cambiamenti climatici di essere messi sul tavolo. Con centinaia di milioni di persone che saranno sradicate dai disastri naturali, sarebbe il momento di discutere su come gestire i flussi, anziché fermarli, poiché per molte persone la migrazione diventerà l’unico strumento di sopravvivenza.
Leila Belhadj Mohamed è una editor e podcaster freelance esperta di migrazioni, diritti umani e geopolitica dell’Africa e del Sud Ovest Asiatico. Tra le tematiche di riferimento: il ruolo delle risorse naturali nei conflitti, dottrine di politica estera occidentali e dei paesi arabi, terrorismo internazionale.
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Grist, un'organizzazione senza scopo di lucro che racconta storie di soluzioni ai problemi causati dalla crisi climatica.
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