Perché bisogna avere fiducia nella scienza del clima, nonostante i Trump e i Milei
di Antonio Scalari
Se l’umanità sa che è in atto un cambiamento climatico causato dalle attività umane è perché la scienza lo ha scoperto. La scienza ha avvertito del pericolo che poteva rappresentare, ormai molti decenni fa. La scienza, che dovrebbe informare le politiche e le scelte dei cittadini in molti settori, è essa stessa parte della società. Non è soltanto un complesso di metodi e nozioni, ma è una comunità, a cui la società guarda quando ha bisogno di risposte.
Dobbiamo però poterci fidare della scienza e degli scienziati. Se questa fiducia viene meno, il rapporto tra scienza e società si incrina. Il conflitto può estendersi all’interno degli stessi governi, dal momento che molte delle più importanti agenzie scientifiche (in tutti i paesi, dalla NASA, all’Istituto superiore di sanità) ne fanno parte come enti controllati dalla politica. Un tale scontro è ciò che vorremmo evitare, specialmente nei momenti di crisi - pandemica, climatica.
Secondo un sondaggio del World Economic Forum, tra il 2019 e il 2021 la percentuale della popolazione globale che dichiara di fidarsi (“molto” o “moltissimo”) di ciò che gli scienziati dicono sul clima è aumentata dal 57 al 68 per cento. Emergono differenze regionali: la percentuale più elevata si registra in Asia Meridionale (84 per cento), quelle più basse in Asia orientale (57 per cento) e Nord America (58 per cento). L’Europa Occidentale è in linea con il dato globale. La fiducia delle persone negli scienziati si riflette nella loro posizione sul cambiamento climatico. Nel 2021 il 74 per cento della popolazione, a livello globale, indicava le attività umane come causa principale del cambiamento climatico, con differenze regionali sovrapponibili a quelle emerse dal quesito precedente.
Questi numeri confermano che atteggiamenti di sfiducia e sospetto nei confronti della scienza, non solo quella che si occupa di clima, appartengono a una minoranza della popolazione. Ma, sebbene minoritarie, queste posizioni possono essere influenti. Abbiamo di fronte casi emblematici. Dal 2017 al 2021 il negazionismo climatico ha avuto come testimonial l’uomo più potente del mondo, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Oggi, nel 2024, Trump sta di nuovo marciando verso la nomination presidenziale, incontrando scarsa resistenza e opposizione in un Partito Repubblicano ormai allineato.
Nel continente americano non c’è solo Trump: l’attuale presidente dell’Argentina ha bollato il cambiamento climatico come una «bugia socialista». In Europa forze politiche che si schierano contro le politiche ambientali hanno il vento in poppa. Il cambiamento climatico viene trascinato nel gorgo delle guerre culturali, che alimentano diatribe ideologiche sterili (si pensi alla politicizzazione di oggetti come la farina di insetti e la carne coltivata).
Il negazionismo, almeno nella versione estremista incarnata da certe figure pubbliche, trova di certo pochi sostenitori attivi ed entusiasti. Ma rappresenta un complesso di atteggiamenti, un linguaggio perfino, quindi di fatto una cultura, che ha propri media e politici di riferimento. Le posizioni che esprime godono di una certa visibilità anche su media “neutrali” che, pur non sposandole, forniscono loro un palcoscenico, perché si prestano a dare spettacolo, più che a fare informazione.
In questo contesto, sembrano rassicuranti i dati sulla percezione pubblica del cambiamento climatico che raccontano di una società preoccupata e favorevole a politiche più coraggiose per affrontare il problema. Una società, dunque, che sembra sorda alle sirene della disinformazione.
Talvolta il quadro appare però sfaccettato. Un sondaggio del Policy Institute del King’s College di Londra, realizzato nel gennaio del 2022 in sei Paesi europei tra cui l’Italia, ha trovato che una maggioranza di cittadini europei è convinta che il cambiamento climatico sia causato “principalmente” dalle attività umane (73 per cento). Una maggioranza ne è “preoccupata” o “un po’ preoccupata” (64 per cento). Tuttavia, solo una minoranza pensa di esserne già oggi danneggiata (28 per cento). Inoltre, alla domanda «qual è la percentuale degli scienziati che ha concluso che sta avvenendo un cambiamento climatico causato dagli esseri umani?», la stima media, nel campione di persone analizzato, è il 68 per cento. Il consenso scientifico percepito nella società è decisamente più basso di quello trovato negli studi, che sfiora il 100 per cento.
La fiducia nella scienza del clima non solo fornisce le basi per realizzare politiche sul cambiamento climatico fondate sull’evidenza, ma condiziona anche la percezione dell’opinione pubblica dell’urgenza della questione. Lo affermano alcuni esperti in un articolo pubblicato sulla rivista Plos Climate, che riassumono i fattori che possono accrescere la diffidenza del pubblico nei confronti degli scienziati.
Molti elementi influenzano le opinioni sul cambiamento climatico, la percezione dei rischi e i comportamenti individuali. La ricerca psicologica e sociale prova a misurarli, pesarli, collegarli in modelli esplicativi. Non bisogna, innanzitutto, trascurare il livello di conoscenze. Una mente che ha accumulato informazioni scorrette, disinformazione e bufale non può maturare un’opinione davvero libera, su nessun argomento. Ma sappiamo che spiegare “come stanno le cose” non basta a vincere convinzioni radicate. I fatti si scontrano a volte con ideologie, valori personali, mentalità e pregiudizi.
La diffidenza nei confronti della scienza del clima può essere alimentata dal sospetto verso l’accuratezza delle evidenze scientifiche e dei metodi con cui vengono elaborate e dalla percezione che alcune pratiche scientifiche non siano corrette e trasparenti. Per abbattere queste barriere non esistono bacchette magiche o facili scorciatoie. Si può seguire solo la lunga strada del dialogo. Comunicare di più, ma soprattutto meglio, significa mostrare non solo competenza, ma anche integrità, apertura, trasparenza.
Il cambiamento climatico, inoltre, non è più solo una questione scientifica, ma anche politica, economica, morale. Anche per gli scienziati è necessario collocarsi, rispetto al resto della società, in un perimetro di valori condivisi. Come la necessità di preservare la stabilità, la sicurezza umana e lo sviluppo economico. Uno stile comunicativo aggressivo, inoltre, non aiuta a migliorare l’immagine degli scienziati (come di chiunque altro comunichi).
Alla base di tutto questo c’è una particolare concezione della comunicazione della scienza: non è solo una pratica dall’alto verso il basso, un flusso unidirezionale di informazioni dagli esperti ai non-esperti, ma è anche un processo dal basso verso l’alto. La comunicazione non dovrebbe mirare solo ad aumentare la comprensione della scienza del clima, ma anche a stimolare l’impegno e la partecipazione attraverso il dialogo.
La democrazia si regge su un corpo di principi e metodi condiviso tra i cittadini, come quelli che riguardano i processi elettorali. Necessita di conoscenze affidabili per informare il dibattito e quindi l’elaborazione delle politiche. Alcuni autori la chiamano “teoria epistemica della democrazia”. È l’idea che la sua legittimità non discenda solo dalle sue procedure e istituzioni, ma anche dalla sua capacità di produrre decisioni e risultati migliori rispetto a forme alternative di governo, come quelle autoritarie.
Su temi come il cambiamento climatico, i vaccini, la prevenzione della pandemie, solo la scienza può fornire quelle conoscenze affidabili. Se possiamo ragionevolmente fidarci dei suoi risultati non è soltanto per i particolari metodi che applica nelle diverse discipline, ma è anche per il processo collettivo attraverso cui vengono vagliate ipotesi, teorie, evidenze. Gli scienziati si confrontano ancora su diversi aspetti che riguardano il cambiamento climatico e lavorano per ridurre le incertezze e colmare i vuoti di conoscenze. Ma non mettono più in discussione la realtà, le cause antropiche, la gravità di questo fenomeno.
“Perché fidarsi della scienza?” è una domanda razionale e legittima, se a ispirarla è l’onesta richiesta di risposte e la necessità di comprendere come la scienza funziona. Non lo è, se a muoverla è il tentativo di oscurare i fatti per difendere un’agenda ideologica.
Antonio Scalari è un comunicatore della scienza. È redattore scientifico di Facta, collabora con il sito di informazione Valigia Blu ed è un membro fondatore di Climate Media Center Italia.