Nel primo numero di A Fuoco Luca Mercalli ha smontato una delle tesi negazioniste più «tranquillizzanti»: il clima è sempre cambiato, sono solo cicli e non abbiamo niente di cui preoccuparci. In questo numero ci occupiamo invece della visione opposta, l'iper catastrofismo di chi dice che ormai è troppo tardi per fare qualcosa e occuparci della crisi climatica.
Questa idea contiene molte bugie e una verità. La parte vera è che né noi né le prossime generazioni vivremo mai in un pianeta climaticamente stabile come quello che avevano conosciuto gli esseri umani nei diecimila anni di storia che ci hanno preceduto. Questa è la storia di un danno in evoluzione: una parte è irreversibile, una parte è affrontabile. Siamo e saremo in una crisi climatica, ma non conosciamo ancora l'entità del danno finale, e questa è la parte che possiamo scrivere noi in questo decennio e nei prossimi.
«È come se fossimo su una macchina che sta correndo verso un muro, la nostra fortuna è che non siamo il passeggero inerme, siamo noi ad avere il volante in mano e possiamo decidere di frenare in tempo», spiega Giacomo Grassi, uno dei più illustri scienziati italiani, membro della task force on greenhouse gas inventories dell'IPCC, la massima istituzione delle Nazioni Unite sul clima. Grassi è autore anche di questa infografica, che spiega bene la situazione in cui ci troviamo.
Noi siamo su questa nave, da tempo impegnata in una pericolosa rotta di collisione, causata dall'aumento di emissioni e da quello, conseguente, di temperature. Siamo noi a poter scegliere se schiantarci contro un iceberg gigantesco o se accostare in un punto sicuro. L'attuale aumento di temperature rispetto all'era pre-industriale è già di 1.15 °C, il punto (relativamente sicuro) di approdo è quello previsto dall'accordo di Parigi (tra 1.5 e 2 °C). Prima della firma di quel trattato internazionale del 2015, il clima era non governato a livello globale, non c'era alcuna transizione coordinata in atto e l'umanità viaggiava verso un aumento medio delle temperature globali superiore a 3.5 °C entro fine secolo.
Uno scenario catastrofico, se contiamo che secondo i dati del servizio europeo Copernicus le temperature medie in Europa crescono quasi del doppio della media mondiale (quindi qui avremmo avuto +7 °C alla fine della collisione) e in Artico del triplo (+10 °C). Il fatto che la traiettoria sia migliorata è la prova del fatto che siamo già intervenuti, anche se troppo lentamente.
La migliore fonte di informazioni su dove ci porti oggi la nostra rotta di collisione è un rapporto intitolato Emission Gap Report prodotto dall'UNEP, l'agenzia ambientale dell'Onu, secondo il quale le attuali policy energetiche dei Paesi avrebbero come effetto un aumento di temperature di 2.8 °C. Meglio di prima, ma comunque troppo. Se guardiamo invece agli impegni presi dai Paesi (come il Green Deal europeo), l'aumento di temperature sarebbe di +2.4 °C. Ancora meglio, ma ancora troppo.
La differenza tra policy e impegni è che le policy rappresentano quello che i Paesi stanno effettivamente facendo oggi, mentre gli impegni sono le promesse messe nero su bianco – ma non legalmente vincolanti – su quello che i Paesi hanno intenzione di fare nei prossimi decenni. Chiudere questo gap e deviare ancora di più la rotta di collisione verso zone più sicure è il compito attuale dei governi, delle società, delle aziende e dell'umanità.
Si può fare? Si può migliorare questa prospettiva? Sì. Oggi siamo ancora lontani dal mondo desiderabile, quello in cui la temperatura aumenterà di solo 1.5 °C. Intendiamoci, è un mondo relativamente desiderabile, perché sarebbe comunque un pianeta in cui aumentano siccità, ondate di calore, eventi estremi, livello dei mari. Ma a +1.5 °C aumenterebbero a un livello che saremmo in grado di gestire.
Partiamo da un dato di realtà: la prospettiva attuale non è ideale (è un cortese eufemismo). Secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale oggi abbiamo due probabilità su tre (il 66 per cento) di sfondare quota 1.5 °C (cioè la quota che vogliamo) già nei prossimi cinque anni. Ma anche in quel caso, non sarebbe tutto perduto. Uno: perché non sarebbe un aumento stabile (gli aumenti stabili si misurano su scale più lunghe di un singolo anno). Due: perché l'IPCC prende in considerazione anche la possibilità dell'overshoot, cioè di superare la soglia per qualche decennio e poi, per effetto delle politiche di decarbonizzazione, rientrare al di sotto nel giro di qualche altro decennio. Tre: perché c'è una cosa che ogni scienziato del clima ripete fino allo sfinimento, ovvero che ogni decimo di grado conta. Questa immagine dal sesto report IPCC mostra in modo chiaro la differenza: un futuro a +1.5 °C, un mondo a +2 °C e un mondo +4 °C sono futuri completamente diversi, per ogni effetto della crisi climatica.
Ma torniamo al punto di partenza. Un mondo più caldo di appena +1.5°C è il miglior scenario a nostra disposizione. È un sogno, un'illusione, come dice qualcuno? In realtà no, non ancora. E questo lo dice un documentato rapporto della IEA (International Energy Agency) da poco uscito. In passato la IEA era stata piuttosto conservatrice sulle possibilità della transizione – nasce pur sempre negli anni Settanta, dopo lo shock petrolifero del 1973, per difendere gli interessi dei compratori di combustibili fossili. Da qualche anno ha cambiato completamente visione e di recente ha aggiornato la sua «roadmap to net zero», il percorso da seguire per raggiungere la neutralità climatica (cioè il momento in cui tra emissioni e assorbimenti non aggiungeremo più gas serra in atmosfera) in tempo per rimanere nel migliore tra i futuri possibili, cioè +1.5 °C. Questa strada, nell'autunno del 2023, è stretta ma è ancora aperta.
La roadmap della IEA è in sostanza un elenco di compiti a casa, le cose che devono accadere affinché possiamo farcela. Sono difficili? Sì. Sono impossibili? No. Punto di partenza: i combustibili fossili (carbone, gas e petrolio) contribuiscono al 90 per cento delle emissioni di CO2. Insomma, sono il 90 per cento del problema. Per affrontare la crisi climatica, non dobbiamo smettere di usarli oggi, o l'anno prossimo, nemmeno in questo decennio. Però dobbiamo iniziare a ridurre molto significativamente il loro consumo, del 25 per cento entro il 2030 e dell'80 per cento entro il 2050.
Significa che, per usare una sintesi della IEA, non servono «nuovi buchi» e che ogni nuovo buco ci avvicina un po' di più a un pianeta inabitabile. Non serviranno nuovi progetti di estrazione di gas e petrolio, né nuove miniere di carbone, né nuove centrali a carbone. Dobbiamo consumare solo quello che stiamo già estraendo, mentre cambiamo il sistema energetico globale.
Per tenere l'obiettivo alla portata, dobbiamo tagliare le emissioni del 55 per cento entro questo decennio. Non facile, visto che le emissioni hanno continuato ad aumentare anche nel 2022, ma ancora possibile. Per farlo, le rinnovabili devono triplicare entro il 2030 (+200 per cento). Già oggi siamo al +75 per cento di previsione di tasso di crescita nel prossimo quinquennio. Stiamo aggiungendo rinnovabili al sistema energetico globale a una velocità furibonda. Serve di più, ma non è vero che non sta succedendo niente.
Altri compiti a casa: l'efficienza energetica deve raddoppiare (dobbiamo imparare a fare le stesse cose con meno energia). Devono crescere velocemente le vendite di auto elettriche, che riducono il consumo di petrolio, e le pompe di calore, che ci affrancano dal consumare gas per riscaldare gli edifici. Per far tutto questo serviranno investimenti, pubblici e privati. Oggi in energia pulita vengono spesi globalmente già 1,8 triliardi di dollari all'anno. La cifra necessaria sarà, a inizio decennio prossimo, 4,5 triliardi di dollari all'anno.
Un altro dato che infonde un po' di ottimismo: secondo la stessa analisi IEA fatta nel 2021 non avevamo ancora tecnologie adatte per metà della riduzione delle emissioni. Sono i settori più difficili da decarbonizzare, ma fondamentali per le nostre economie: produzione di acciaio, cemento, vetro, carta, aviazione, trasporto marittimo. Oggi lo stesso dato è sceso al 35 per cento. Significa che stiamo anche trovando nuove soluzioni, che la nostra curva di apprendimento è ripida e che una parte del futuro climatico dell'umanità (e quindi del suo futuro in generale) è ancora tutta da scrivere.
Le due parole chiave dell'azione per il clima sono mitigazione e adattamento. Sono entrambe azioni necessarie, dove mitigazione significa ridurre le emissioni (cioè il danno) e l'adattamento è prepararci alla parte di danno che non possiamo più evitare. Per dirla con le parole di Grassi, «la mitigazione è evitare l'ingestibile, l'adattamento è gestire l'inevitabile». È questo il nostro compito.
Ferdinando Cotugno è un giornalista, si occupa di clima e politica, scrive per il quotidiano Domani, per il quale cura anche la newsletter AREALE. Nel 2020 ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori), nel 2022 è uscito Primavera ambientale (Il Margine). Conduce (con Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano) il podcast Ecotoni.
Strumenti che puoi usare anche tu
Una delle cose che si sente ripetere spesso è che servirebbero più dati per prevenire. Succede sempre quando ci si ritrova a fare i conti con i danni per un evento che può essere imputabile anche a fenomeni legati alla crisi climatica.
A volte, però, questi dati ci sono, anche in Italia. Ma se ne parla poco. Per esempio, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha messo a disposizione pubblicamente due mappe molto importanti. La prima è l’Inventario dei fenomeni franosi in Italia. La trovi qui.
La seconda è la mappa del territorio, delle popolazioni, degli edifici in Italia a rischio idrogeologico per frane e alluvioni. La trovi qui.
A cosa serve avere queste mappe a disposizione? Per esempio, è un abilitante per la cittadinanza: sapere quali sono le aree a rischio serve a far pressione sui decisori politici a tutti i livelli (da quello locale a quello nazionale) perché mettano in sicurezza persone e territorio.
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