La falsa contrapposizione tra ambiente e lavoro che animerà le prossime elezioni europee
di Emanuela Barbiroglio
Dal 6 al 9 giugno 2024, tutti gli aventi diritto voteranno i nuovi membri del Parlamento europeo. Nel farlo produrranno una cascata di eventi che avvicineranno il cambiamento climatico alle sue tante possibili soluzioni, oppure lo allontaneranno. Non lo lasceranno dov’è, e la ragione sta nel nome: è un cambiamento, già in corso, che le manifestazioni, le diverse abitudini di consumo, l’organizzazione attiva, possono contribuire a fermare.
Andare alle urne è un’azione climatica.
Lo ha confermato Laurence Tubiana, amministratrice delegata dell’iniziativa filantropica European Climate Foundation, considerata “l’architetta” dell’Accordo di Parigi che ha contribuito a progettare nel 2015, strappando a tutte le nazioni del mondo l’impegno a mantenere l’aumento delle temperature medie globali ben al di sotto di 2 gradi Celsius rispetto al periodo preindustriale.
Non a caso, Tubiana ha definito il voto di giugno “enormemente importante”.
L’ultima proiezione di Europe Elects mostra che il partito in testa è ancora il centrodestra rappresentato dal PPE (con 173 seggi potenziali), seguito da S&D di centrosinistra (139 seggi) e dai liberali Renew (92). Sono gli stessi tre partiti che nel 2019 formarono la “grande coalizione” informale con cui hanno per cinque anni tenuto le redini di Bruxelles e perlopiù arginato il rischio di una deriva populista.
Al momento di seggi ne hanno 404 su 705, una comoda maggioranza assoluta. La più ampia da febbraio scorso, anche considerato un lieve aumento del numero dei deputati a partire dal prossimo anno. Tubiana ha riconosciuto che è troppo presto per farsi delle idee, ma quantomeno “sarà importante rimettere il clima in cima all’agenda”.
Eppure i leader europei riuniti a Granada il mese scorso non sono riusciti a includere il cambiamento climatico tra le priorità dell’Unione per gli anni a venire, uscendosene con un vago riferimento alla necessità di affrontare «le vulnerabilità e rafforzare la nostra preparazione alle crisi, anche nel contesto dei crescenti rischi climatici e ambientali e delle tensioni geopolitiche».
Un’altra delusione è arrivata dai ministri per l’Ambiente, che non hanno aggiornato al rialzo il contributo determinato a livello nazionale (NDC) all’Accordo di Parigi: l’obiettivo UE resta un taglio delle emissioni di «almeno il 55 per cento» entro il 2030. Si poteva fare di più. La stessa Commissione europea soltanto un anno fa aveva detto di poter arrivare al 57 per cento.
Ma si poteva anche fare meno: soltanto qualche anno fa il macro progetto del Green Deal europeo era molto difficile da immaginare. Di questo ho parlato con Elisa Giannelli, responsabile del programma sulla governance climatica e le politiche dell'UE per il think-tank E3G.
«Quando [l’attuale presidente della Commissione europea, ndr] Ursula von der Leyen è arrivata, ha visto il clima come quella tematica che poteva mettere tutti d'accordo» mi ha detto Giannelli. «Era visto come un tema coesivo fra tutte le varie famiglie politiche, perché i leader si erano già messi d’accordo a dicembre 2018 che la neutralità climatica dovesse essere l’obiettivo»,
Per un po’ è stato vero. Anche i sondaggi post-Covid del 2021 ci dicevano che un quarto delle persone riteneva il cambiamento climatico il problema più grave al mondo. Adesso invece, sebbene il cambiamento climatico sia ancora considerato un problema globale molto serio, per gli intervistati non è il più serio. Si trova infatti al terzo posto, dietro alla povertà e alle guerre.
Qualcuno ne ha approfittato per dare avvio alla campagna elettorale in anticipo, nemmeno troppo velatamente. È il caso del centrodestra, che ha tentato di bloccare una legge per la protezione delle aree naturali l’estate scorsa, sostenendo che andasse a svantaggio dell’economia e dei lavoratori, a cui si sarebbe tolto spazio nel vero e proprio senso del termine.
Discorsi simili si erano già sentiti per la decarbonizzazione del settore industriale che, secondo i suoi detrattori o chi la vorrebbe più lenta, lascerebbe indietro intere regioni che vivono di carbone, acciaio o auto a combustione. Uno studio commissionato dall’Unione Europea nel 2022 aveva suddiviso il mercato del lavoro nei colori verde, bianco e marrone, in ordine crescente di impatto sul clima. Secondo i ricercatori, i lavori “marroni” saranno quelli «probabilmente sotto pressione, o che osserveranno un cambiamento significativo», ma avevano chiarito che il 90 per cento dei cittadini Ue fa lavori “bianchi”, ovvero quelli neutrali rispetto alla transizione ecologica.
Un’altra ricerca del 2019 aveva già parlato di uno dei pilastri della politica europea, la transizione giusta, spiegando che la transizione «non è socialmente inclusiva per impostazione predefinita», ma che questo non è un buon motivo per non intraprenderla, considerato fra l’altro che il costo dell'inazione sarebbe sicuramente più alto. Semmai, concludeva la ricerca, «le politiche occupazionali e sociali diventano fondamentali» e, «poiché ci sono evidenti sinergie tra sostenibilità ambientale e performance economica, affrontare il cambiamento climatico può essere un’opportunità per le imprese dell’UE».
A sentire gli stessi eurodeputati, il momento più complicato del dibattito sembra essere passato proprio dopo il voto sulla protezione delle aree naturali. «Penso che ora abbiamo trovato una via da seguire» ha affermato il francese Pascal Canfin del partito centrista Renew, che è anche presidente della commissione ambiente del Parlamento europeo (ENVI).
Canfin ha anche aggiunto che «l’idea che ci sarebbe un fronte politico composto dal PPE e dall’ID [di estrema destra, ndr] contro l’intero movimento dei Verdi, il che potrebbe semplicemente uccidere il Green Deal, ora sembra sempre più alle nostre spalle». «Spero di non essere troppo ottimista», ha concluso.
Secondo Elisa Giannelli, «va riconosciuto il merito a von der Leyen di essere riuscita a utilizzare il Green Deal europeo come strumento per navigare le varie crisi che ha dovuto affrontare, e ne ha affrontate tantissime». Nonostante questo, nel 2023, «i partiti col freno tirato sono molto più bravi e molto più preparati a raccontare la storia sulla transizione».
Non esiste alcuno scontro tra protezione dell’ambiente e protezione degli umani, nemmeno se volessimo ridurre questi ultimi ad alcune delle tante cose che possono fare, come lavorare e consumare. Le fazioni politiche che hanno usato a proprio vantaggio questa dicotomia fino a oggi, quelle sì, si scontreranno con chi saprà «evidenziare le opportunità per i lavoratori, per i cittadini, per la qualità della vita», ha concluso Giannelli. E, se non si avvista nessuno in giro che ne sia capace, i prossimi mesi saranno il momento per cercare quel partito. Scuoterlo dal suo sonno, pretenderlo, crearlo da zero se occorre.
Emanuela Barbiroglio scrive di clima ed energia. Abita a Bruxelles, dove ha collaborato anche con l’agenzia ANSA e il collettivo Voxeurop, occupandosi di coesione e ambiente. Prima ancora, è stata data giornalista, e ha studiato giornalismo scientifico a Londra, antropologia a Potsdam e storia moderna a Genova.
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