Qual è l’impatto del cibo nella crisi climatica? Ovvero: quanto ciò che mettiamo nel piatto fa aumentare le emissioni di gas a effetto serra e contribuisce al surriscaldamento globale? Secondo la Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite sull’agricoltura e l’alimentazione, la filiera del cibo nel suo complesso produce più di un terzo delle emissioni totali. Il computo esatto, pubblicato in uno studio del 2021, è del 34 per cento: una cifra che, oltre alla produzione, tiene conto di trasporto, immagazzinamento, imballaggio e gestione degli scarti alimentari.
Questo risultato è frutto in primis di una semplice equazione: mangiare è un bisogno insopprimibile dell’essere umano. Dunque: più aumentano le bocche da sfamare, maggiore sarà l’impatto del sistema alimentare sull’equilibrio degli ecosistemi. Nel 2022 la popolazione umana sul pianeta ha raggiunto gli 8 miliardi, con un aumento di 5 volte in appena cento anni. Nutrire questo enorme numero di individui ha un ovvio impatto sulle risorse globali. Come accade in ogni sistema complesso, tuttavia, ci sono altre variabili che entrano in gioco. Non è soltanto la quantità di cibo che si produce, ma anche il modo in cui lo si fa. Potremmo dire che il peso dei sistemi alimentari sul cambiamento climatico è legato all’aumento della popolazione e alle abitudini alimentari che una parte di questa popolazione dà per acquisiti.
Accanto al tema della sovrappopolazione umana, ce n’è in effetti un altro che appare ancora più rilevante nella disamina delle ragioni per cui la filiera del cibo ha un ruolo così marcato nelle emissioni clima-alteranti: la sovrappopolazione degli animali da allevamento. Oggi, sul pianeta, vengono macellati ogni anno circa 70 miliardi di capi per il consumo alimentare. Un numero tanto gigantesco quanto poco visibile, che è stato reso possibile dallo sviluppo di un nuovo tipo di allevamento: quello intensivo.
Si tratta di una tecnica relativamente recente nella storia umana: se l’addomesticamento degli animali trae origine dai primi insediamenti stanziali nella Mezzaluna fertile circa 5.000 anni fa, il loro sfruttamento a scopo industriale ha appena un secolo di vita. E ha cambiato radicalmente sia il modo in cui si producono che quello in cui si consumano le proteine animali. Il fatto di chiudere il bestiame nei capannoni ha permesso di fare economie di scala, che hanno portato a un aumento vertiginoso dei capi allevati: per fare un esempio, dal 1960 a oggi il consumo di carne di pollo è passato globalmente da 10 a 120 milioni di tonnellate l’anno. Questo significa che attualmente vengono macellati ogni giorno 202 milioni di polli, 140mila ogni minuto.
Se questo tipo di allevamento ha l’indubbio vantaggio di garantire l’accesso alle proteine animali a fasce di popolazione più ampie, ha tuttavia il difetto di avere un impatto notevolmente maggiore sull’ambiente. L’allevamento tradizionale inventato in Mesopotamia era parte integrante di un sistema organico che oggi chiameremmo di economia circolare: gli animali erano usati nella pratica agricola e venivano nutriti con i prodotti dei campi, i quali a loro volta venivano concimati con il loro letame.
Il sistema dell’allevamento intensivo è invece un modello di economia lineare: gli animali sono comparabili a macchine, che devono quindi essere alimentate con un carburante, ossia il mangime costituito da mais e legumi. Durante il ciclo di produzione, poi, generano scarti: data l’alta concentrazione del bestiame, il letame cessa di essere una risorsa e diventa un rifiuto da smaltire. Non a caso negli Stati Uniti, dove il sistema è stato inventato, l’allevamento intensivo è definito “Concentrated animal feeding operation", o Cafo, ossia operazione di nutrimento di animali concentrati.
Secondo l’efficace definizione dello studioso canadese Tony Weis, autore di numerosi saggi sulla cosiddetta “meatification of diets”, gli allevamenti intensivi sono paragonabili a isole di animali in oceani di mais e soia. Nel loro luogo d’origine, ossia il sud degli Stati Uniti, i capannoni sono effettivamente circondati da terre adibite alla produzione di mangimi. In seguito e vista la sua grande efficacia, il sistema si è diffuso prima in Europa occidentale, poi in altre aree del mondo più densamente popolate, come la Cina. In queste zone, la disponibilità di terre non è così elevata. Così, in gran parte del mondo le componenti per i mangimi non sono più coltivate nei pressi degli allevamenti: le isole non sono nel mezzo dei mari, ma dall’altra parte del globo. Il pianeta si è di fatto trasformato in un gigantesco allevamento intensivo, intendendo con questa dicitura – per citare ancora gli studi di Weis – il “complesso integrato bestiame-cereali-semi oleosi” che costituisce il tripartito meccanismo di funzionamento del sistema.
Oggi, un terzo delle terre arabili è destinato alla produzione di cereali e leguminose utilizzate per la zootecnia, e non a colture per il consumo diretto umano. Una vasta zona dell’America del Sud è stata via via convertita in un’immensa monocoltura di soia destinata agli allevamenti intensivi di tutto il mondo. L’avanzata della frontiera agricola sta erodendo porzioni rilevanti della selva amazzonica. Il 17 per cento della più grande foresta del mondo è già andato perduto, sostituito da grandi piantagioni.
Tutti questi elementi hanno un impatto notevole sull’ambiente: i 70 miliardi di animali che annualmente macelliamo producono emissioni, così come l’enorme quantità di mangimi utilizzati per nutrirli ha portato alla conversione di terreni che una volta svolgevano la funzione di sequestrare e immagazzinare anidride carbonica. Più distruggiamo le foreste, minore sarà la capacità globale di catturare biossido di carbonio. Nel segmento alimentare, la zootecnia intensiva è il settore che maggiormente impatta sull’ambiente, sia in termini di inquinamento che di emissione di gas a effetto serra.
Che cosa possiamo fare? Ridurre il consumo di carne, interrogarci sul costo ambientale di una filiera poco sostenibile, immaginare soluzioni alternative per una dieta più equilibrata sia per la nostra salute che per gli ecosistemi in cui viviamo. Perché nel mondo interconnesso di oggi è sempre più valida la teoria dell’effetto farfalla enunciata dal meteorologo statunitense Edward Lorenz nel 1972. Con una differenza: non sarà il metaforico battito d’ali di una farfalla a provocare un tornado in Texas, ma la molto più concreta bistecca che abbiamo nel piatto.
Stefano Liberti è un giornalista e filmmaker, pubblica da anni reportage di politica internazionale su testate italiane e straniere. Ha scritto diversi libri e diretto vari film. Il suo ultimo libro è “Terra bruciata. Come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra vita” (Rizzoli, 2021).
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Il Global Environmental Crime Tracker è uno strumento realizzato dalla Environmental Investigation Agency. Raccoglie informazioni dettagliate e verificate su diversi tipi di crimini ambientali internazionali: dal commercio illegale di idrofluorocarburi e gas refrigeranti al contrabbando di animali e di legname. Nella mappa relativa agli animali sono raccolti oltre 15mila casi di crimini documentati.
Grazie per l'articolo! La lettura del suo "I signori del cibo" ha contribuito, fra le altre cose, a farmi selezionare con più cura il cibo che mangio. A livello individuale si può fare molto, come andare il meno possibile al supermercato per sganciarsi dal sistema della GDO, preferendo mercati e negozi vicini a casa. Il mio macellaio vende carne locale non allevata in modo intensivo, la carne è ottima, costa un po' di più (ma non tanto di più della carne del supermercato), ma ne mangi meno (e la salute ci guadagna). Si va dal contadino che vende i propri prodotti senza intermediari e nella cantina del viticultore a comprare il vino sfuso. Alle casette dell'acqua per evitare le bottiglie in plastica e così via. Le possibilità sono tante, basta impegnarsi un po', ma non è così difficile. Non abbiamo più scusanti.