Diciamocelo apertamente: alle persone che rimangono scettiche davanti alle tematiche di genere, potrebbe sembrare bizzarra l’affermazione secondo la quale l’emergenza climatica non impatta allo stesso modo su tutti e tutte. Eppure è proprio così, e numerosi studi accademici da decenni evidenziano il cosiddetto “impatto differenziato di genere” causato dalla crisi climatica, definita “threat multiplier” (“moltiplicatore di rischio”): un fenomeno in grado di inasprire diseguaglianze economiche e sociali già esistenti.
Lungi dal rappresentare una situazione nella quale “siamo tutti sulla stessa barca”, quando si parla di crisi climatica è fondamentale essere il più precisi possibile: è vero che essa è una minaccia per l’essere umano. Ma nel fronteggiarla alcuni esseri umani sono più esseri umani di altri, per parafrasare malamente una celebre frase di George Orwell.
È per questo che alla ricerca scientifica deve necessariamente associarsi il coinvolgimento di governi, organizzazioni non governative e comunità, perché solo dalla collaborazione tra le parti interessate è possibile delineare raccomandazioni politiche concrete che tengano insieme diverse dimensioni: continuare a ignorarle significa rinunciare a eradicare le profonde disparità e ingiustizie presenti nella società.
A questo proposito, in seno alle Nazioni Unite – e a molte altre organizzazioni internazionali – è sempre più incoraggiato il “gender mainstreaming”, definito dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) come l’integrazione di una prospettiva di genere per valutare le implicazioni per donne e uomini di qualsiasi azione pianificata, compresa la legislazione, le politiche o i programmi, in qualsiasi ambito e a tutti i livelli. Il gender mainstreaming è, insomma, un approccio strategico che sottolinea la necessità di guardare alle disparità uomo-donna nel contesto più ampio delle sfide attuali.
Nel perimetro dell’annuale appuntamento COP dell’UNFCCC, è dal 2012 che la dimensione di genere del cambiamento climatico viene affrontata come punto permanente. Da questo punto di vista, si notano sensibili miglioramenti nei piani dei Paesi: come mostra un rapporto del 2022 dell’UNFCCC, il genere è sempre più menzionato dalla maggioranza dei Paesi, nelle politiche e nella pianificazione climatica. Indubbi progressi che però, se guardati controluce, mostrano la quantità di lavoro ancora da fare per arrivare a politiche pubbliche realmente organiche.
Se l’emergenza climatica è un “moltiplicatore di rischio”, capace di individuare e amplificare le ingiustizie esistenti, risulterà chiaro quanto sia fondamentale evitare una prospettiva incentrata sui Paesi del Primo mondo: le sfide ambientali coinvolgono infatti comunità di tutto il mondo, caratterizzate da gradi diversi di vulnerabilità. Ciò è particolarmente evidente nelle comunità rurali del Sud del mondo, dove le donne – per i loro bisogni energetici e mezzi di sussistenza – dipendono maggiormente dalla biomassa (colture agricole, rifiuti, legno, etc.) rispetto agli uomini. Sono gli stessi Paesi in cui le stesse donne svolgono un ruolo significativo nella produzione agricola ma non hanno pari accesso alle risorse e ai processi decisionali.
Negli ultimi anni, inoltre, il saldarsi del rapporto tra cambiamenti climatici (inclusi i frequenti eventi meteorologici estremi) e povertà, conflitti e violazione dei diritti umani ha contribuito a ingrossare le fila della mobilità umana forzata. La cifra record registrata a metà 2023 dall’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) è di 110 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case a causa di guerre e disastri naturali. Tra i vari dati ce n’è uno, sempre riportato dall’UNHCR, particolarmente angosciante: tra le rifugiate o sfollate internamente, una donna su cinque ha subito violenza sessuale.
Come scrive la filosofa Nancy Fraser in Capitalismo cannibale (Laterza, 2023): «Non più appannaggio esclusivo di movimenti ambientalisti isolati, il cambiamento climatico appare oramai come una questione urgente su cui ogni attore politico deve prendere posizione. Inserito in una serie di agende in competizione tra loro, il problema viene variamente declinato a seconda dei diversi impegni a cui si accompagna. [...]».
Mentre da una parte ci sono attori politici assestati su posizioni di “climate delay” (ritardo climatico), dall’altra se ne schierano molti altri – con traiettorie sia bottom-up sia top-down – che da anni sottolineano come l’unica possibilità, quando si guarda all’ambiente, sia guardare a fattori extra-ambientali. Perché – a dispetto del titolo! – la crisi climatica è anche una questione di genere. Ma non solo.
Come già si leggeva nel capitolo 13 del Fifth Assessment Report (WGII AR5) dell’IPCC del 2014: «Le persone svantaggiate socialmente e geograficamente, esposte a persistenti disuguaglianze all'incrocio di varie dimensioni di discriminazione – basate sul genere, sull’età, sulla razza, sulla classe sociale, sulla casta, sull’indigenità e sulla (dis)abilità – sono colpite in modo particolarmente negativo dai cambiamenti climatici e dai rischi correlati al clima. Le condizioni specifiche del contesto di marginalizzazione modellano la vulnerabilità multidimensionale e gli impatti differenziati».
In questo articolo abbiamo sì parlato di impatto differenziato secondo l’asse del genere per una precisa scelta metodologica e contenutistica. Ma è solo affrontando i principali fattori di questa crisi – ambientali e “non-ambientali” – e rivelando le loro interconnessioni che si può immaginare l’uscita dal circolo vizioso delle diseguaglianze. Non si tratta di aggiungere una componente di uguaglianza a un’attività già pianificata, ma di concepire la risposta alla crisi climatica in modo radicalmente diverso, per capire davvero come mai quando piove... piove sempre sul bagnato.
Silvia Gola lavora a cavallo tra editoria, giornalismo e comunicazione. È consigliera di Acta - l’associazione dei freelance, attivista di Redacta e solitamente si occupa di lavoro, letteratura, editoria e condizione femminile
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La grafica sembra quella di un sito della fine degli anni novanta, ma lo strumento è molto efficace e usato in molti aggregatori (incluso il Global Forest Watch di cui abbiamo già parlato). Si tratta del World Air Quality Index Project che propone in tempo semi-reale i dati che provengono dai rilevatori di alcuni indicatori (fra cui PM2.5, PM10, No2, So2, Co2) che consentono di attribuire un punteggio alla qualità dell’aria che si sta respirando in quel momento in quell’area. Naturalmente il dato non è disponibile ovunque. I dati in tempo reale non sono controllati istantaneamente, ma sul sito trovi anche le serie storiche, che invece vengono validate un paio di giorni dopo la misurazione). Se preferisci un’interfaccia più amichevole puoi vedere il dato dentro al Global Forest Watch, cliccando qui.