Il ritardo climatico istituzionalizzato in Italia: un pattern che si ripete
di Stefano Cisternino
In Italia sono poche le personalità pubbliche e autorevoli che negano il cambiamento climatico. A livello istituzionale, il governo lo riconosce, lo nomina e predispone piani per contrastarlo. Ma poi tutto resta fermo. O peggio, va all’indietro.
«Gli italiani non hanno scelto un governo composto da pericolosi negazionisti climatici», assicurava nel 2023 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Parlamento, spiegando che l’approccio dell’esecutivo al clima è «pragmatico e non ideologico».
In effetti, nessuno nei vertici di governo nega apertamente il cambiamento climatico. Eppure, osservando le politiche attuate tra il 2023 e il 2025, emerge un chiaro pattern sistemico di ritardo deliberato e strutturale nell’azione climatica, fatto di rinvii, contraddizioni e promesse futuribili che di fatto rallentano la transizione ecologica del Paese. Un modello di “ostruzionismo verde” che non nega il cambiamento climatico, ma lo svuota di senso attraverso tecnicismi, retoriche rassicuranti e soluzioni “non trasformative”, come gas “ponte”, compensazioni, offset e promesse future di tecnologie miracolose.
Nel luglio 2023, il governo – in carica da qualche mese – aveva presentato una revisione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con tagli per 15,9 miliardi di euro, colpendo duramente i capitoli ambientali. Tra i progetti ridimensionati, spiccano quelli per il contrasto al dissesto idrogeologico, che ha visto i fondi dimezzati due mesi dopo le alluvioni in Emilia-Romagna, quando intere città della regione erano finite sott’acqua. Le strade sembravano fiumi, le scuole erano chiuse, gli agricoltori spalavano fango. Non era la prima volta e, con ogni probabilità, non sarà l’ultima.
Ma quando si è trattato di scegliere, le misure per prevenire nuovi disastri sono sparite dal bilancio. Sono stati inoltre cancellati 110 milioni destinati al rimboschimento urbano – un programma che prevedeva la piantumazione di 6,6 milioni di alberi – con la motivazione di una «impossibilità oggettiva» a realizzarlo. Anche i 675 milioni previsti per impianti rinnovabili innovativi, tra cui l’eolico offshore, sono stati eliminati. In totale, la revisione ha definanziato oltre 8 miliardi in misure legate alla transizione verde. L’allora ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il PNRR Raffaele Fitto aveva promesso che i progetti esclusi sarebbero stati coperti da altri strumenti nazionali ed europei, ma ad oggi non esiste una garanzia concreta.
Il segnale lanciato è chiaro: quando si taglia, il clima è tra i primi a essere sacrificato. Anche il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), atteso dal 2018, è stato approvato solo a fine 2023, senza risorse dedicate né tempistiche definite. Di fatto, l’Italia continua a inseguire l’emergenza climatica con strumenti normativi tardivi e una pianificazione debole, proprio in un contesto in cui l’adattamento dovrebbe costituire il primo pilastro della sicurezza climatica nazionale. Una fragilità tanto più grave se si considera che il nostro Paese è tra i più esposti in Europa agli impatti del cambiamento climatico, con oltre 3.000 eventi estremi registrati nel solo 2022 (e con una previsione in rapidissima crescita per il 2025 e gli anni a venire), secondo il nuovo Climate Risk Index (CRI) 2025 pubblicato da Germanwatch.
Lungi dal diminuire la dipendenza dai combustibili fossili, il governo Meloni ha lanciato il cosiddetto Piano Mattei per l’Africa, presentato come strategia di cooperazione ma costruito soprattutto attorno al gas. L’obiettivo implicito è fare dell’Italia un hub europeo per il transito di metano, rafforzando accordi con Paesi come Algeria e Libia. Il piano è stato firmato ufficialmente nel gennaio 2024, ma molti osservatori ne hanno sottolineato la debolezza sul fronte climatico e l’assenza di risorse nuove. Dei 5,5 miliardi previsti, 3 provengono in realtà dal Fondo Italiano per il Clima, già istituito dal governo Draghi. Alla COP28, l’Italia ha sottoscritto l’impegno a una “uscita graduale dai combustibili fossili”, ma nei fatti continua a puntare sulla loro espansione. Secondo ECCO e ReCommon, il Piano Mattei rafforza una visione centrata sul gas e rischia di ritardare la decarbonizzazione. Invece di sfruttare l’occasione per guidare una cooperazione euro-africana sulle rinnovabili, l’Italia rilancia la propria dipendenza da forniture fossili, solo spostandone la geografia.
Tra le “soluzioni” proposte dal governo per affrontare la transizione energetica è tornato in scena anche il nucleare. A febbraio 2025 il Consiglio dei ministri ha approvato una legge delega per reintrodurre l’energia atomica, con la promessa di centrali «sicure, pulite e moderne». Ma si tratta, per l’appunto, di una promessa: la strategia dovrebbe essere definita entro il 2027, e qualsiasi impianto non entrerebbe in funzione prima della metà degli anni Trenta. Anche all’interno della maggioranza c’è chi ammette che il ritorno al nucleare tradizionale in Italia sia poco realistico, vista l’opposizione dell’opinione pubblica e i costi elevati. Il governo punta piuttosto su reattori modulari di nuova generazione, ma questi non sono ancora operativi da nessuna parte in Europa. Secondo esperti come il premio Nobel Giorgio Parisi, il nucleare oggi è troppo lento, costoso e inadatto per affiancare le rinnovabili in una transizione rapida. Eppure, il tema continua a occupare spazio nel dibattito pubblico e nel PNIEC, distogliendo attenzione e risorse dalle tecnologie già disponibili. Meloni ha anche dichiarato che «in un deserto non cresce nulla di verde», evocando il rischio che il Green Deal europeo provochi una «desertificazione industriale» dell’economia europea. Il rischio è che questa narrazione agisca come un sedativo politico: un modo per rassicurare sull’impegno climatico senza dover prendere decisioni difficili nell’immediato.
Nel frattempo, chi prova a richiamare l’attenzione sull’inazione climatica viene trattato come un problema di ordine pubblico. Il governo ha approvato la cosiddetta legge contro gli “ecovandali”, rivolta in particolare agli attivisti di Ultima Generazione, che prevede multe da 10 a 60 mila euro e fino a 5 anni di carcere per chi danneggia o imbratta beni culturali durante le proteste. Si tratta di sanzioni sproporzionate per azioni che, pur eclatanti, sono pacifiche e simboliche. Invece di aprire un confronto sul contenuto delle richieste – accelerare l’azione climatica – l’esecutivo ha scelto la via della repressione. La legge, fortemente voluta dall'ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, è stata seguita da ulteriori strette normative promosse dal Viminale, che ha giustificato l’urgenza con un emblematico «in Parlamento si è perso troppo tempo». Il rischio è evidente: si silenziano le voci scomode invece di ascoltarle, rinviando ancora una volta le risposte strutturali. Anche questo è un tratto ricorrente del ritardo climatico istituzionale: più che negare il cambiamento climatico, si preferisce “negare” chi lo denuncia.
Sommando tutto, il quadro che emerge è chiaro: il governo italiano non nega la crisi climatica, ma la rimanda sistematicamente. Lo fa attraverso piani deboli, investimenti sbilanciati, promesse tecnofuturiste e tagli mirati proprio a quelle politiche che dovrebbero prepararci agli impatti già in corso. Si continua a parlare di «pragmatismo» e «neutralità tecnologica», ma intanto si costruisce una transizione a passo lento, ancorata al gas e affidata a soluzioni ancora sulla carta. Ed è così che l’Italia è scivolata al 43º posto nel Climate Change Performance Index 2025, con punteggi particolarmente bassi su fonti rinnovabili e politiche climatiche.
Questo è il volto più insidioso del ritardo climatico: non un rifiuto aperto della scienza, ma un continuo rinvio dell’azione, reso credibile da un linguaggio tecnico, da promesse generiche e da scelte politiche difficili da decifrare per chi osserva da fuori. Ma i dati – quelli che contano davvero – parlano chiaro. Le emissioni calano troppo lentamente, le rinnovabili crescono sotto ritmo, i territori si sgretolano sotto piogge estreme, incendi e siccità. E il tempo che perdiamo oggi non lo recupereremo domani. Per questo riconoscere i meccanismi del ritardo climatico istituzionale è il primo passo per disinnescarli. Perché nessuna strategia climatica può funzionare se non comincia da una cosa semplice: la volontà, qui e ora, di cambiare rotta. Ma volevamo essere duri. Come canta Lucio Corsi, duri per finta. Abbiamo scambiato l’immobilismo per fermezza, il rinvio per razionalità. Solo che la crisi non aspetta, e non fa sconti. E quando ci accorgeremo che serviva coraggio per agire – non per resistere a oltranza – rischieremo di aver fatto i duri per niente. E di essere solo rimasti indietro. Ancora una volta.
Stefano Cisternino è esperto in comunicazione sulla circolarità per ICLEI Europe, e dirige l’Osservatorio italiano sulla misinformazione climatica. Scrive per Treccani, Duegradi e Icarus Complex Magazine, lavora come editor per YES-Europe, ed è facilitatore Climate Fresk e formatore ambientale per la Commissione europea.
Il podcast di A Fuoco
La crisi climatica è ormai una realtà che plasma il nostro presente e minaccia il nostro futuro. Dalle alluvioni devastanti agli incendi incontrollabili, la crisi climatica sta modificando la nostra quotidianità e mettendo a rischio l’integrità dei nostri ecosistemi. Ma se per molti il fenomeno sembra ancora lontano o confinato in altre parti del mondo, la verità è che sta già colpendo le nostre città, le nostre terre e, soprattutto, le nostre vite. Come affrontare questa trasformazione che sta travolgendo tutto?
Nella quattordicesima puntata del podcast di A Fuoco, Virginia Della Sala, giornalista, esperta di tematiche ambientali e autrice del libro “Migrare in casa” (Edizioni Ambiente), ci racconta le storie e le sfide di chi si trova costretto a fare i conti con le catastrofi naturali causate dal riscaldamento globale.
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