Il privilegio ha una cattiva reputazione, tanto che se diamo a qualcuno del “privilegiato” probabilmente non la prenderà bene e penserà che riteniamo non meriti i risultati che ha raggiunto. Ma che succede se guardiamo il privilegio non come un vantaggio che si ha, ma come l’assenza di barriere o pericoli?
Possiamo applicarlo alle questioni di genere, in economia e anche all’ambiente. Avere un privilegio climatico significa pensare che i cambiamenti climatici siano un problema in corso lontano da noi, che non ci riguarda. Ma anche poter partecipare a una manifestazione senza temere per la propria vita, mentre ogni anno circa 200 attivisti muoiono per aver preso le difese dell’ambiente, soprattutto in America Latina. Significa avere accesso a un’istruzione, dunque agli strumenti per capire cosa sta succedendo al clima del pianeta. O, semplicemente, poter scegliere un prodotto dal packaging più sostenibile anche se costa più degli altri.
Mentre politici e grandi industrie lasciano spesso il fardello della responsabilità ambientale al consumatore, i dati confermano che le disuguaglianze sono uno degli elementi più critici della questione climatica. Il Climate Inequality Report 2023 ci ricorda che gli impatti non sono distribuiti in modo equo sul pianeta: i Paesi a basso e medio reddito subiscono più conseguenze, ma la vulnerabilità riguarda anche le fasce di popolazione meno abbienti nei Paesi ad alto reddito.
«Il privilegio è invisibile per chi lo ha» ha detto il sociologo americano Michael Kimmel. Se lo hai non te ne rendi conto, ma se non lo hai influenza ogni aspetto della tua vita. E se fosse il privilegio il motivo per il quale i leader del pianeta non considerano la situazione un’emergenza, al punto di ridurre i finanziamenti per l’adattamento climatico destinati ai Paesi più poveri?
Molto ha a che fare con la rappresentazione sui media. Andando indietro nel tempo di una decina d’anni, il riscaldamento globale sui giornali e in tv prendeva la forma di orsi polari in pericolo o catastrofi ambientali in luoghi in genere lontani dal lettore e dalla sua percezione di urgenza. Gradualmente la narrazione si è evoluta e sono diventati più frequenti i reportage sui migranti climatici, le previsioni, i rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC). Tuttavia, anche per i giornalisti più competenti è difficile trovare un equilibrio tra raccontare un’emergenza e coinvolgere il pubblico, tra evitare l’allarmismo e non cadere nei tecnicismi.
Questo racconto ha un ruolo determinante: se è fatto bene, ci sprona ad agire e riduce la distanza psicologica che abbiamo posto tra noi e l’ambiente. Ma se la narrazione prende la piega della disinformazione, delinea un futuro apocalittico o dipinge il riscaldamento globale come una questione politica, è tutta un’altra storia. Una che nutre il privilegio dicendoci che è legittimo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto, che ci paralizza con l’ecoansia per il destino del pianeta (o per il timore di perdere il nostro stile di vita?), o ci deresponsabilizza con informazioni parziali o scorrette: «Perché fare sacrifici se è comunque troppo tardi?» o «Il clima è sempre cambiato, sono cicli, perché allarmarsi?».
Quando i media confrontano le attuali temperature con quelle del 1880 – primo anno per il quale disponiamo di dati affidabili – o riportano che entro il 2050 il livello del mare sulle coste degli Stati Uniti potrebbe aumentare di 30 centimetri rispetto a oggi, distolgono l’attenzione dal presente e fanno sentire i lettori impotenti, rendendo ancor meno tangibile il problema.
Questo non significa che previsioni e dati debbano cadere nel silenzio, ma che (come suggeriscono le linee guida, ad esempio quelle ONU) ai tecnicismi vanno affiancate storie che creino una connessione emotiva, il legame con la vita di tutti i giorni, ma soprattutto le possibili soluzioni e la necessità di adattarsi alla “nuova normalità”. Come gli eventi meteo estremi che saranno sempre più frequenti e distruttivi, non solo nei Paesi più vulnerabili – pensiamo alle Filippine, con grandi città costiere e territorio altamente esposto a frane, alluvioni, cicloni e siccità – ma su tutto il pianeta, dove ogni territorio ha le sue fragilità.
Secondo l’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, oltre sette milioni di italiani vivono in zone a rischio di frana e alluvione; sette regioni – Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata – hanno il 100 per cento delle aree comunali a rischio di dissesto idrogeologico, e molte altre arrivano al 90 per cento. È privilegio continuare a chiamare “maltempo” eventi meteo estremi che da decenni sapevamo sarebbero cresciuti in frequenza e intensità, agendo a disastro ormai in corso. È privilegio quando i decisori politici trascurano la responsabilità delle città in termini di emissioni e non ne prioritizzano la decarbonizzazione, ignorando le evidenze e continuando a cementificare.
La visione privilegiata della crisi climatica è una che può permettersi di non vedere l’urgenza, ma anche di non validare i diversi modi di rapportarsi all’ambiente. I Paesi in via di sviluppo e le minoranze, ad esempio, vengono spesso raccontati in modo stereotipato e raramente descritti come protagonisti della lotta ai cambiamenti climatici, anche quando la loro cultura è molto più legata alla natura di quella occidentale.
Ce lo mostra l’Australia. Considerato uno dei peggiori tra i Paesi del G20 nella mitigazione della crisi climatica, tra il 2019 e il 2020 ha affrontato la distruttiva Black Summer, una stagione degli incendi (bushfires) di una gravità senza precedenti. Nonostante i bushfires siano da sempre la normalità per il Paese, e la vegetazione stessa si sia evoluta per sfruttarli, la situazione moderna è esacerbata dai cambiamenti climatici: negli ultimi 30 anni l'area interessata dagli incendi si è fatta sempre più ampia e piove sempre meno.
Le autorità australiane sanno che quanto si faceva finora per contenere gli incendi non è più sufficiente. La chiave sarà la prevenzione, anche tramite il recupero in chiave scientifica di tecniche come il cultural burning, ovvero incendi controllati che gli Aborigeni dell’Australia usano da sempre per limitare il rischio di roghi più vasti e meno controllabili. Un ritorno alla tradizione, sì, ma per queste persone – che da decine di migliaia di anni si identificano come custodi del territorio – arriva entro una normalità di emarginazione e delegittimazione.
Le conoscenze tradizionali non sono state realmente incluse nei piani di prevenzione degli incendi, hanno raccontato i portavoce aborigeni, e le loro offerte di contribuire non sono state prese in considerazione. Quello da loro subito è stato un «disastro nel disastro«, riporta uno studio: al trauma degli incendi si è aggiunto quello dell’assistenza non appropriata ricevuta nell’emergenza. Al punto che le comunità, sentendosi tagliate fuori dalla risposta dei soccorsi, hanno preso in mano la situazione per agire in prima persona, secondo i propri valori.
La conseguenza, spiega l’autore Bhiamie Williamson, è che ora c’è una grossa mancanza di fiducia nei confronti degli enti di soccorso da parte degli Aborigeni. «Nelle misure precauzionali la preparazione è tutto, e non ci sono piani di gestione dell’emergenza che includano le necessità uniche degli Aborigeni», ha spiegato Williamson. Un altro volto del privilegio: uno che persegue un solo modo di affrontare l’emergenza, che vede una sola realtà culturale, un unico possibile rapporto con la natura. E che perde così, oltre a punti di vista diversi, anche altre possibili soluzioni a una crisi che riguarda tutti.
«Il pianeta non si sta preparando a sufficienza, non sta investendo abbastanza e continua a mancare la necessaria pianificazione, lasciandoci tutti esposti» avverte infatti il The Adaptation Gap Report 2023 delle Nazioni Unite. È ora che chi ha un privilegio lo riconosca, per impegnarci come collettività affinché politica e industria aumentino gli sforzi per l’adattamento alla crisi climatica. Che è qui, adesso.
Fotografia di Francesca Leonardi
Eleonora Degano è una giornalista e traduttrice freelance. Biologa di formazione, si è specializzata in comunicazione della scienza con particolare attenzione ai temi dell’ambiente e della salute mentale. Collabora con diverse realtà come National Geographic Italia, MIND e l’agenzia leap. Su Internazionale Kids cura la rubrica mensile “Consigli per salvare il pianeta”.
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