«Ci sono due cose che in carcere non ho mai visto. Le sveglie, perché tanto è la conta della polizia penitenziaria a svegliarti, e i termometri, perché i detenuti potrebbero ingerire il mercurio o le pile, e tagliarsi. Il risultato è che nessuno sa davvero che temperatura ci sia dentro al carcere» mi ha riferito Andrea Oleandri, responsabile per la comunicazione dell’associazione Antigone. Nelle carceri mancano, ovviamente, anche i condizionatori. Oleandri racconta di averne visti per la prima volta solo di recente, nel carcere di Avezzano, in Abruzzo; uno in una stanza adibita a palestra, l’altro in quella dedicata alle attività ricreative.
Parlare di carcere e crisi climatica significa innanzitutto fare conti con un’assenza: la maggior parte dei dati che potrebbero aiutarci a capire cosa significa vivere la crisi climatica dentro alla cella sovraffollata di un blocco di cemento assolato, mancano. Ciò che non manca sono invece le lettere delle persone rinchiuse in cella, le esperienze dei volontari, la conoscenza del sistema penitenziario italiano dei Garanti dei diritti dei detenuti e quella dell’associazione Antigone, che da anni organizza ispezioni, stila rapporti e conduce ricerche. Questo articolo vuole provare a restituire, senza presunzione di esaustività, la vita ordinaria delle persone recluse dentro a un sistema repressivo che, al pari di tutto il resto, subisce le alte temperature della crisi climatica, senza sconti di pena.
In Italia ci sono 190 istituti penitenziari, di cui 152 costruiti nel Novecento. Nessuna struttura è energeticamente efficiente, il calore si irradia attraverso i muri sottili soprattutto se, come spesso accade, l’istituto è isolato, circondato dall’asfalto e bagnato dal sole. «Le carceri non sono costruite secondo dei criteri di coibentazione specifici, né quelle vecchie né quelle nuove», spiega Oleandri. «Ciò significa che i muri non isolano bene, e l’aria – calda e fredda – entra con molta facilità dentro le celle». Lo stesso discorso vale per i soffitti: negli istituti più recenti, i soffitti a volte non arrivano neanche a 3 metri. Significa che l’aria calda si ferma ad altezza persona. In quelli più vecchi, invece, ci sono celle che superano i 4 metri di altezza, particolare che evita la stagnazione di aria calda
Non ci è dato conoscere la temperatura all’interno delle celle, dal momento che questa non è mai stata rilevata ufficialmente da nessun organo istituzionale e, chiaramente, varia in base al tipo di struttura, alla collocazione della sezione, al piano in cui si trova la cella e alla possibilità o meno di far arieggiare gli spazi. Quest’ultimo aspetto, tra l’altro, negli ultimi anni è stato reso via via più ostico da numerose condizioni strutturali e regolamentari, come l’utilizzo delle schermature alle finestre, l’introduzione della “politica delle celle chiuse” e il fenomeno del sovraffollamento.
Il responsabile della comunicazione di Antigone spiega infatti che, per evitare che i detenuti lancino in strada oggetti o che ne ricevano dall’esterno senza permesso, la polizia penitenziaria copre – a volte anche integralmente – le finestre con pannelli di plexiglas o feritoie di ferro a maglie strette. Una soluzione che permette di far passare la luce ma non gli oggetti.
Per fare un esempio concreto, lo scorso dicembre l’associazione Antigone ha stilato un impietoso rapporto sulla casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza, rilevando un ambiente che rimane insalubre tutto l’anno, d’inverno come d’estate. Nel post Facebook dedicato all’ispezione Antigone segnala che «nel lato confinante con alcune abitazioni, a partire dal 2022 sono state installate alle finestre delle schermature in plexiglass che limitano la vista e l’aerazione, causando disagi, soprattutto in estate». Sempre nella stessa struttura l’associazione ha trovato «alcuni problemi strutturali come macchie di umidità, muri scrostati e bagni con muffa», «un malfunzionamento dell'impianto di riscaldamento – inattivo da oltre 3 giorni – che necessita di essere modificato in toto» e che ha lasciato i detenuti al freddo per quindici giorni. L’ultima rilevazione nazionale dell’Osservatorio di Antigone sulla presenza delle schermature nelle carceri italiane è del 2021, anno in cui l’utilizzo di questa tecnica era stato riscontrato in metà delle 96 strutture visitate. E in estate una schermatura di plastica riscaldata dal sole significa fare fatica a respirare, percepire un caldo asfissiante, a tratti insopportabile. Una condizione disumana per chi in quella stanza sbarrata è obbligato a passare almeno 20 ore al giorno.
L’altro problema, infatti, è quello delle cosiddette “celle chiuse”. Questo regime, reintrodotto dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria e confermato nel 2022, comporta che «il 60,55% delle persone attualmente detenute all’interno delle carceri italiane è sottoposto a custodia chiusa, il che implica, in sintesi, la reclusione in cella per tutta la giornata eccetto le 4 ore d’aria previste dall’ordinamento penitenziario» scrive la ricercatrice Rachele Stroppa in un capitolo del XXI rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone. Le celle, oltre alla schermatura delle finestre, hanno una porta di accesso che nella quasi totalità dei casi è composta da due parti: la prima è una porta blindata (detta “blindo”) composta da una lastra uniforme di ferro su cui è presente uno spioncino che permette alla polizia penitenziaria di guardare dentro; la seconda è un’inferriata formata da regolari sbarre verticali. Durante la notte, a differenza del giorno, anche il blindo viene chiuso e il ricircolo dell’aria è completamente ostruito.
Veniamo così al vero cuore del problema, quello ineludibile eppure così spesso relegato ai margini del nostro dibattito pubblico al tempo della crisi climatica. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, il tasso reale di affollamento nelle carceri è del 133 per cento, con circa 16 mila persone che non hanno un posto regolamentare. Ben 58 carceri su 189 hanno un tasso di sovraffollamento superiore al 150 per cento. Gli istituti più affollati al momento sono San Vittore, a Milano (220%), seguito da Foggia (212%) e Lucca (205%). «In tutti e tre i casi ci sono più del doppio delle persone che quelle carceri potrebbero e dovrebbero contenere» spiega Antigone. Significa che la poca aria che resta, i detenuti devono dividerla con altre 3, 4, 5 compagni di cella. In 30 dei 95 istituti visitati da Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti i 3 metri quadri calpestabili per ogni persona, requisito minimo di vivibilità delle carceri stabilito dalla Corte di Cassazione.
Tutti questi dati sono condensati in un rapporto di Antigone, il ventunesimo, intitolato “Senza respiro”, un’esplicita ripresa delle parole che il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro aveva pronunciato a metà novembre del 2024 in occasione della presentazione di una nuova auto per il trasporto dei detenuti in regime di 41bis: «L'idea di far sapere ai cittadini come noi trattiamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto un'intima gioia».
In realtà, a restare senza respiro è ogni detenuto che sconta la sua pena in un carcere italiano, soprattutto d’estate, quando la sofferenza corporale diventa una pena accessoria che viene inflitta a tutte le persone detenute. Di carcere ci si ammala, e spesso insorgono patologie dovute alla detenzione: i cinque sensi si modificano (perdita della vista, dell’udito, comparsa di dermatiti, inappetenza), si aumenta di peso, si perde massa muscolare, compaiono patologie psichiatriche come depressione e ansia. La sopportazione del caldo diventa così l’ennesima violenza imposta a corpi già decisamente provati.
Come dicevamo all’inizio, in nessun istituto penitenziario d’Italia è presente l’aria condizionata, fatta eccezione per le due stanze della casa circondariale di Avezzano. L’unica possibilità che hanno le persone incarcerate per sopportare il caldo estivo, fa sapere Oleandri, sono dunque i ventilatori, acquistabili grazie al cosiddetto “sopravvitto”, una lista di beni che hanno il permesso di compare.«Chiaramente puoi acquistare i beni previsti dal sopravvitto solo se hai i soldi per farlo. In media, un ventilatore costa circa 30 euro, una spesa che purtroppo non tutti possono permettersi». Tra l’altro, spiega ancora Oleandri, per ragioni di sicurezza possono essere acquistati solo determinati modelli e normalmente è consentito un solo ventilatore per cella, anche quando in quella cella ci dormono sei persone. Un ulteriore problema si pone poi nel momento in cui il detenuto che ha acquistato il ventilatore cambia cella, lasciando gli altri detenuti senza il prezioso dispositivo. Per questo motivo nelle scorse settimane diverse associazioni, liberi cittadini e comunità religiose hanno deciso di donare dei ventilatori per le carceri.
Il caldo estremo rende estremamente palese l’utilità di cose che i cittadini liberi danno per scontate, ma alle quali la popolazione carceraria non può accedere liberamente. Servizi essenziali minimi come, ad esempio, l’acqua fresca e le docce. In nessuna cella sono presenti i frigoriferi, sono disponibili in condivisione solo in alcuni istituti. Con il regime delle celle chiuse, una persona che desidera avere un po’ di acqua fresca deve chiedere, ogni volta, a un esponente di polizia penitenziaria di aprire la cella e accompagnarlo al frigo. Ma non solo, perché spesso i detenuti possono rinfrescarsi dal sudore solo nelle 4 ore in cui le celle non sono chiuse a chiave: «in 53 istituti (dei 96 visitati) c’erano celle senza doccia e in 4 istituti [...] il wc non si trovava in ambiente separato» riferisce ancora Antigone.
Come racconta una detenuta della sezione femminile del carcere di Torino “Le Vallette”, il caldo funziona da detonatore, favorisce lo scoppio di liti e proteste che, con l’approvazione del nuovo decreto sicurezza, vengono punite con l’allungamento della pena. E tutto questo accade in un contesto che ha visto il 2024 come l'anno peggiore di sempre per i suicidi nelle carceri italiane, con percentuali ben al di sopra della media europea. Ad oggi, l’unica risposta del governo alla crisi climatica vissuta dai detenuti è arrivata dal ministro della Giustizia Nordio che ha promesso l’invio di mille frigoriferi.
Anita Fallani è autrice di podcast e giornalista freelance. Ha scritto e condotto per più di 2 anni Mele, il podcast daily di Torcha. Racconta storie, soprattutto di chi sta ai margini. Collabora con Editoriale Domani, Facta, VD News, Chora, One Podcast, Valori.it . Quando non scrive, legge tutto quello che può.