Riusciremo a impedire che la transizione energetica si traduca in nuove devastazioni sociali e ambientali, magari in nuove guerre per le risorse?
Spieghiamoci. Per “transizione energetica” intendiamo la strategia di abbandonare l’uso di combustibili fossili per passare a fonti d’energia rinnovabile; in generale minimizzare l’uso di energia e di risorse in ogni industria umana. Infatti carbone, petrolio, gas naturale sono i primi responsabili delle emissioni di anidride carbonica e altri gas “di serra” che si accumulano nell’atmosfera terrestre e la scaldano, quindi i primi responsabili del cambiamento climatico, la madre di tutte le crisi ambientali. Non c’è bisogno di sottolineare l’urgenza: lo fa il Panel Intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) fin dagli anni ’90, che lo ribadisce nella Sintesi finale del suo sesto rapporto pubblicato a marzo 2023.
Parole come decarbonizzare, o net zero, sono così entrate nel lessico dei decisori politici di tutto il mondo, o quasi. In Europa, l’Unione Europea ha denominato Green New Deal la strategia industriale lanciata nel 2019, che si propone di raggiungere la neutralità climatica entro la metà di questo secolo. Certo, il lessico maschera spesso operazioni di facciata, una strategia che abbiamo imparato a conoscere come greenwashing. Però la produzione di energie rinnovabili avanza, seppure con lentezza (estrema lentezza, per quanto riguarda l’Italia) insieme all’innovazione tecnologica, nuovi materiali, uso più efficiente delle risorse. Che questo basti a combattere il cambiamento climatico è discutibile, senza ripensare l’organizzazione delle città e dei trasporti (meno auto individuali, sebbene elettriche!), il modo di consumare, disporre dei rifiuti e riciclare materiali.
Ma ammettiamo, e mettiamo a fuoco un altro problema: la transizione energetica e industriale richiede un «sostanzioso input di materiali», avverte l’Agenzia internazionale per l’energia. Quali? In parte vecchie conoscenze come acciaio, cemento, alluminio (in cui la possibilità di “decarbonizzare” è scarsa) e plastiche (derivate per lo più dal petrolio): continuano a servire anche per i nuovi impianti eolici, veicoli elettrici, edifici efficienti e così via.
Soprattutto, “nuove” materie prime. Minerali che avevano un uso limitato fino a qualche decennio fa e che oggi sono invece diventati strategici. Come il litio per le batterie in cui accumulare l’energia prodotta dagli impianti solari o eolici. Il cobalto, indispensabile in certe leghe metalliche ad alta resistenza, i magneti permanenti, o le batterie per le auto elettriche. Le terre rare, il silicio, il coltan (miscela di niobio e tantalio), e molti altri: minerali dalle caratteristiche speciali che li rendono indispensabili, anche quando servono in quantità relativamente piccole.
L’Aie, l’Agenzia internazionale dell'energia, calcola che la domanda di litio, cobalto, nickel, rame e neodimio potrebbe crescere tra una volta e mezzo e sette volte al 2030, se la transizione energetica procederà come previsto. E che nel 2040 la domanda supererà la produzione. E non ci sono solo quei cinque minerali; l’ultimo documento dell’Unione europea sulle “materie prime critiche” (Crm, critical raw materials), pubblicato quest’anno, individua 34 materiali «strategici»: ovvero di grande importanza economica per l’industria europea, ma il cui approvvigionamento è ad alto rischio.
Il punto è che la produzione di questi minerali è geograficamente molto concentrata: l’Australia ha circa metà della produzione mondiale di litio, che sommata con il Cile fa tre quarti del totale. La Cina domina sulle terre rare, oltre a consistenti quantità di molti altri minerali. L’Indonesia fornisce il 40 per cento del nickel. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc) produce tra il 60 e il 70 per cento del cobalto e metà del coltan. Paesi che controllano una singola materia prima: una concentrazione molto più forte di quanto sia mai avvenuto con il petrolio
.Nella “geopolitica delle materie prime”, questi Paesi avranno una posizione di forza. E ancora di più l’avranno i Paesi che hanno la capacità di raffinare e lavorare quei minerali. Per esempio, il cobalto estratto della Rdc vola altrove, per lo più in Cina (è la vecchia storia dei produttori di materie prime che incassano solo le royalties, di solito stabilite dal compratore, mentre potenze con capacità industriali avanzate ne traggono il valore aggiunto).
L’Europa importa gran parte delle materie prime indispensabili alla transizione energetica e industriale, e corre ai ripari. La Commissione Europea parla di «dipendenze strategiche» in un documento del febbraio 2022, e sta elaborando una nuova politica sulle materie prime critiche con l’obiettivo di diversificare le fonti di importazione, incoraggiare l’esplorazione mineraria interna, oltre alla ricerca sui materiali, il riciclo e la produzione di materia prima “seconda”, ossia quella estratta dagli oggetti scartati, dai rottami.
Tutto questo però tralascia un altro aspetto: l’impatto ambientale, sociale, umano dell’estrazione di questi minerali. Il litio, ad esempio, si trova nelle distese di sale disseccato in zone desertiche delle Ande, detti salar: ma per estrarlo servono grandi quantità d’acqua, oltre alle sostanze tossiche usate nella lavorazione. Nel salar di Atacama, il più grande del Cile, l’estrazione ha ormai prosciugato due terzi dell’acqua della regione, con grande danno per gli agricoltori.
Il cobalto viene estratto nella Rdc in condizioni atroci, come pure il coltan: in concessioni minerarie formali o in miniere artigianali dove uomini e ragazzi – a volte perfino bambini – lavorano come dannati per pochi spiccioli e grande rischio. Le linee guida e i programmi di certificazione internazionale avviati nell’ultimo decennio sono vani: anche perché gran parte del cobalto e del coltan vengono dalla regione nord-orientale della Rdc, in preda a una guerra strisciante ormai trentennale alimentata tra l’altro proprio dalla competizione per accaparrarsi cobalto, oro e altro. Un caso paradigmatico di “guerre per le risorse naturali”.
Ecco la contraddizione: la transizione energetica può sembrarci “leggera”, ma le materie prime per realizzarla non sono diverse da ogni altro minerale, estratto quasi sempre con pesanti costi ambientali e umani. Si possono estrarre in modo meno devastante? Sì, almeno in parte (nessuna estrazione sarà mai a impatto zero). Certo si può investire sulla sicurezza, minimizzare gli impatti, distribuire equamente i benefici. Ma bisogna appunto farlo.
Altrimenti anche la transizione energetica seguirà il solito modello di sfruttamento globale, per cui qualcuno, nei Paesi più benestanti, godrà i benefici di una fase tecnologica “più pulita” della storia umana mentre altri, in qualche nuovo cuore di tenebra, ne pagheranno il prezzo.
Marina Forti, giornalista e scrittrice. Ha esordito a Radio Popolare di Milano; poi si è trasferita a Roma per entrare nella redazione del quotidiano il manifesto, dove ha lavorato per trent'anni ricoprendo gli incarichi di caposervizio degli esteri, caporedattore e inviata. Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale, Iran e nel sud-est asiatico.
La sua rubrica terraterra, storie quotidiane di ambiente e conflitti per le risorse naturali, ha ricevuto nel 1999 il premio giornalistico noto come Premiolino. È autrice di La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo (Feltrinelli, Milano 2004; premio Elsa Morante per la Comunicazione 2004) e di Il cuore di tenebra dell'India (Bruno Mondadori, 2012), sui conflitti rurali e le estreme diseguaglianze in India.
Il suo ultimo libro è Malaterra. Come hanno avvelenato l'Italia (Laterza, settembre 2018), sull’eredità di inquinamento dell'industrializzazione italiana. Oggi collabora con Internazionale.it, Altreconomia e altre testate. È la direttrice della Scuola di giornalismo della Fondazione Lisli e Lelio Basso.
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