Bramble Cay è una briciola di sabbia corallina tra l’Australia e la Nuova Guinea, grande come cinque o sei campi da calcio, il cui punto più alto non supera i tre metri sul livello del mare. Era l’unico angolo del pianeta dove viveva, fino a pochi anni fa, il ratto dalla coda lunga Melomys rubicola. Oggi M. rubicola non esiste più. La lenta ascesa del livello del mare ha permesso alle mareggiate di inondare l’isolotto sempre più spesso, strappando la vegetazione che offriva cibo e rifugio al roditore e allagandone i nidi. Da centinaia di individui, la popolazione calò nei primi anni del 2000 a poche decine. Nel 2015 un gruppo di ricercatori australiani cercò di censire gli esemplari rimanenti per portarli in salvo: non ne trovò nessuno. Il ratto di Bramble Cay, la prima specie di mammiferi ufficialmente estinta a causa del cambiamento climatico, per ora è un caso abbastanza isolato. Ma potrebbe essere il sintomo iniziale di una crisi ecologica senza precedenti.
Benché coinvolto nel degrado di molti ecosistemi, al momento il cambiamento climatico non è la causa principale dell’estinzione di massa in corso: consumo di suolo e lo sfruttamento diretto della biosfera sono ben più importanti. La crisi climatica si classifica, in media, quarta come impatto: «Il clima è come un mulo: potente, ma opera lentamente [...] Fin troppe specie dovrebbero ritenersi fortunate ad affrontare i cambiamenti climatici, perché vuol dire che saranno sopravvissute a impatti più urgenti e diretti sulla loro esistenza.»
Nessun allarme, dunque? Il ritornello negazionista “il clima è sempre cambiato” dimentica che, quando è cambiato, gli effetti sono stati drammatici. 252 milioni di anni fa, alla fine del Permiano, il mutamento climatico causò la più devastante estinzione di massa della storia della Terra, spazzando via il 90 per cento delle specie marine e il 75 per cento di quelle terrestri. Allora come oggi, colpevole fu l’enorme quantità di CO₂ gettata in atmosfera, che arroventò il pianeta di 8-10 gradi in meno di 100.000 anni. All’epoca responsabili furono i vulcani; l’attuale scalata delle temperature indotta dall’uomo è cento volte più veloce: prosegue al ritmo di due gradi per secolo.
Tra tutti i fattori che sgretolano la biodiversità sul pianeta, il clima è uno dei pochi davvero universale. Possiamo creare riserve dove l’essere umano non metta piede ma non possiamo isolare un ambiente dal riscaldamento globale. Vuoi per il progressivo aumento delle temperature, vuoi per l’intensificarsi di eventi estremi, oggi diversi habitat stanno diventando invivibili per le specie che vi abitano. Uno studio del 2018 ha previsto che, se con 1,5 gradi di riscaldamento solo il 6 per cento circa delle specie animali rischia di perdere oltre metà del proprio areale, questa percentuale raddoppia a +2 °C e diventa del 20-50 per cento a +3,2 °C – mettendo all’angolo una enorme quantità di specie. Secondo il rapporto 2020 dell’ Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), un aumento di +2 °C può mettere già a rischio di estinzione una specie su venti, che diventa una su 12 e una su 6 a +3° e +4,3°. L’IPCC è ancora più pessimista, nel suo rapporto del 2022: prevede che oltre il 10 per cento delle specie sia messo a rischio di sopravvivenza da un riscaldamento di +1,6° e oltre il 20 per cento a +2,1°, una temperatura che verrà facilmente raggiunta entro il 2100. Oltre i +4°, metà delle specie marine tropicali rischia di essere sterminata.
Gli oceani infatti sono, al momento, gli ambienti più colpiti dalla crisi climatica. Il nostro Mar Mediterraneo oggi ospita – a seconda degli habitat – solo dal 60 per cento al 5 per cento delle specie di molluschi che vi abitavano nei secoli precedenti: una delle più catastrofiche perdite di biodiversità marina dovuta al clima. Singoli eventi estremi possono essere colpi mortali: un’ondata di calore tra 2014 e 2016 ha ucciso 4 milioni di urie lungo le coste dell’Alaska, alterando permanentemente la fauna di quella regione. In Australia gli incendi del 2020 potrebbero aver condotto fino a 500 specie sull’orlo dell’estinzione.
Per sfuggire al mutamento climatico, alle forme di vita non resta che fare fagotto e migrare, in un gigantesco fenomeno di rimescolamento globale. La lenta fuga degli animali marini in cerca di acque più fresche verso i poli, da 1,5 a 2,5 km all’anno, è oggi, secondo l’IPBES, forse il più generale segno biologico della crisi climatica. Esattamente lo stesso fenomeno accadde durante l’estinzione del Permiano. Questa invasione non è benevola: per esempio il riccio di mare Centrostephanus rodgersii dalle coste dell’Australia continentale sta raggiungendo la Tasmania, dove distrugge le foreste sottomarine di kelp, alghe che forniscono protezione e cibo a molte specie animali. E tra le specie che devono affrontare l’arrivo di profughi climatici c’è anche l’uomo. Gli incontri (e scontri) tra orsi polari e persone sono triplicati tra il 1970 e il 2009 in Canada, nonostante la popolazione di orsi sia in declino. La grave siccità che nel 2018 ha colpito l’Africa meridionale ha portato i grandi carnivori selvatici a predare gli allevamenti in Botswana, aggravando l’impatto sulla produzione di cibo.
Chi invece non può abbandonare il mutamento dei propri habitat è condannato a perire. Non a caso il grande segnale biologico odierno del riscaldamento globale è il collasso delle barriere coralline, estremamente sensibili ad aumenti di temperatura delle acque e alla loro acidificazione causata dall’assorbimento della CO₂. Le ondate di calore oceaniche tra 2014 e 2017 hanno già danneggiato gravemente tre quarti delle barriere coralline del pianeta, e il 2024 ha visto il quarto evento globale di “sbiancamento” dei coralli.
Al di là del rischio diretto di estinzione, un mondo più caldo avrà una biosfera diversa, i cui effetti sulla nostra sopravvivenza e sul clima stesso sono difficili da prevedere. Il mutamento del clima è già il fattore principale che altera la composizione delle comunità biologiche. Secondo l’IPBES, il riscaldamento degli oceani potrebbe ridurre la dimensione media delle specie marine, e sempre negli oceani la biomassa potrebbe diminuire, entro il 2100, anche del 23 per cento. Il cambiamento climatico indebolisce gli ecosistemi, direttamente e indirettamente, rendendoli vulnerabili e portandoli, infine, al collasso.
Questa medaglia ha un rovescio però. Proteggere gli ecosistemi e la biodiversità non è fine a sé stesso, né è un obiettivo indipendente dalla soluzione della crisi climatica: è invece un altro passaggio fondamentale per rallentare o fermare il riscaldamento globale. Oggi gli ecosistemi di terraferma sono un “pozzo” che assorbe fino al 30 per cento della CO₂ emessa dalle attività umane. Ripristinare e proteggere le forme di vita dunque incrementa l’assorbimento e rimozione della CO₂ e altri gas serra. I progetti REDD+ delle Nazioni Unite per combattere la deforestazione e il degrado delle foreste hanno contribuito non solo a preservare specie, ma anche a evitare emissioni per circa 1,5 miliardi di tonnellate di CO₂. Secondo alcune stime, riuscire a mettere sotto protezione il 50 per cento delle terre emerse potrebbe stoccare 1420 miliardi di tonnellate di carbonio. Proteggere attivamente i pesci, una delle risorse biologiche più sfruttate del pianeta, consentirebbe di eliminare l’equivalente di 5,5 miliardi di CO₂ all’anno – più delle emissioni di tutti gli Stati Uniti. Ma anche interventi più piccoli e mirati possono avere un impatto sorprendente: ripristinare le popolazioni di bisonti in Nord America potrebbe rimuovere dall’atmosfera 595 milioni di tonnellate all’anno di CO₂; una quantità superiore alle emissioni di tutta l’Italia
Quello che è successo 252 milioni di anni fa, quando un riscaldamento globale paragonabile all’attuale rischiò di sterminare la vita sulla Terra, dovrebbe ricordarci quanto è elevata la posta in gioco riguardo alla crisi climatica. Ma proprio la ricchezza biologica del nostro pianeta, se sapremo sostenerla, potrebbe essere quello che ci salverà.
Massimo Sandal è uno scrittore e giornalista scientifico, nato a La Spezia. Ha conseguito un dottorato in Biofisica sperimentale a Bologna e uno in Biologia computazionale ad Aquisgrana, dove vive tuttora. Dal 2011 collabora come science writer freelance per varie testate (Wired, Le Scienze, Esquire, Il Tascabile, Rivista Micron, Il Post), con un occhio di riguardo alla pratica e sociologia della scienza, e più di recente anche alla crisi ecologica in atto. Nel 2020 è stato vincitore della Facebook Health Fellowship per contrastare la disinformzione sulla pandemia di COVID-19. Il suo primo libro, La malinconia del mammut (Il Saggiatore 2019), esplora storia, scienza e cultura dell'estinzione dei viventi.
Memini climatici

Piacere di risentirla dottor Sandal, ricordo con piacere i suoi interventi nel podcast di Pagella Politica
Grazie dell'articolo, chiaro e ben scritto.
Speriamo che nonostante gli USA si siano sfilati dagli accordi di Parigi, si riesca a continuare con i progetti di protezione e ripristino.
Ieri leggevo che è stato spostato avanti l'orologio dell'apocalisse verso la mezzanotte dell'umanità e il cambiamento climatico è una delle cause, oltre alle guerre ovviamente.
Che tristezza essere così ciechi.